Stavo ancora parlando e bevendo quando si udì un terribile rumore di vetri infranti e una grossa pietra precipitò nella stanza attraverso la porta a vetri che dava sul giardino. Un attimo dopo la porta d’ingresso si spalancò e due ombre grigio-brune e ringhianti balzarono all’interno avventandosi sugli irlandesi. La mia sedia si rovesciò, e caddi in mezzo ai vetri sul pavimento appiccicoso di whiskey. Da quella posizione vidi Arregui entrare dietro ai suoi cani brandendo un pesante bastone.
Il pelato fece per estrarre una pistola da sotto la giacca, ma il vecchio pastore fu più veloce e gli assestò un violento colpo alla nuca.
Mi risvegliai sul divano. Dovevo essere svenuto un’altra volta. Ero tutto pesto e ancora ubriaco, il mio corpo dolorante mi faceva l’effetto di qualcosa di remoto e irreale. Provai ad alzarmi a sedere, ma la stanza prese a girare vorticosamente. Faticai a mettere a fuoco la faccia che mi si parò davanti. Era Tómas, che mi porgeva un bicchiere d’acqua. Avevo una sete tremenda e lo vuotai in un sorso solo.
«Rimettiti giù tranquillo, Peter» disse Tómas.
«Dove sono andati?»
«Due sono scappati. E papà ha trascinato fuori il terzo. È morto.»
D’un tratto ricordai.
«Stronzo!» gli dissi. «Maledetto stronzo che non sei altro!»
Lui indietreggiò di un passo. Avevo la mente lucida ed ero pieno di aggressività indotta dal whiskey.
«Non è come credi» disse lui.
«Mi hai dato in pasto ai tuoi amici terroristi dell’IRA, pezzo di merda» dissi.
«Non è come credi» ripeté lui.
Di nuovo provai a mettermi a sedere, ma fui assalito da un violento capogiro che mi costrinse a desistere.
«Devo telefonare» dissi.
«C’è tempo. Per ora rimani disteso. Ti hanno conciato per le feste.»
«Voglio un telefono!»
Con un sospiro lui mi porse il cellulare, ma non riuscivo a centrare i tasti, allora glielo restituii e gli dettai il numero di Don Alfonso a Madrid.
«Non risponde nessuno» disse Tómas.
«Che cos’è questa storia della valigia?» chiesi. «Perché volete sapere della valigia?»
«Quale valigia?»
«Da quanto tempo sono disteso qui?»
«Da un paio d’ore.»
«Merda!» dissi.
«Se sei vivo devi ringraziare mio padre. È sceso a valle prima del previsto, ha visto le macchine parcheggiate vicino alla curva. I cani erano agitati, allora è venuto a vedere come stavi.»
«Gli sarebbe bastato chiederlo a te. Avresti potuto spiegargli meglio di me quel che stava succedendo qui» dissi.
«Ti sbagli» si difese ancora lui.
«Rifai quel numero» ordinai.
Don Alfonso non rispondeva. Con l’aiuto di Tómas riuscii ad alzarmi e a raggiungere il tavolo della cucina. La stanza puzzava ancora di whiskey. Uno dei cani era seduto nel vano della porta, con gli occhi gialli seguiva ogni mio movimento. A un certo punto udii un fischio e il cane sfrecciò via.
«Dov’è Arregui?» domandai.
«Si sta occupando del cadavere» rispose lui con freddezza.
Mi fece sedere e mi mise davanti una grossa tazza di caffè nero.
«Preferirei un drink» mi sentii dire.
«Dopo. Su, bevi. Ne hai bisogno.»
«Tómas, perché volete la mia valigia? Perché non mi hai interrogato direttamente invece di aizzarmi contro quei ceffi dell’IRA? Credevo che fossimo amici.»
Ecco, pensai, mio malgrado ero scivolato nel tono di autocommiserazione tipico di chi beve. Per scrollarmelo di dosso presi un sorso del caldo, dolce espresso triplo di Tómas.
«Non erano dell’IRA» disse qualcuno alle mie spalle. Un ragazzo stava scendendo le scale dal piano superiore. Lo riconobbi dalla voce: era quello che nel cantiere di Renteria mi aveva assicurato che l’ETA non c’entrava con la morte della mia famiglia. Non poteva avere più di venticinque anni, il viso era pallido e affilato sotto i capelli a spazzola. Indossava un giubbotto di pelle nera sopra una T-shirt grigia.
«E così sei qui anche tu» dissi.
«È stato Tómas a chiamarci. Arregui e gli altri si stanno sbarazzando di quello stronzo. Gli altri due non usciranno da Euskadi. Devi pensare a cosa dirai alla polizia, tenendo conto di Arregui.»
«Non ho alcuna intenzione di parlare con la polizia. Chi era quello che Arregui ha ammazzato?» domandai.
«Non abbiamo trovato documenti. Aveva la testa rasata. Ti dispiace?»
Scossi la testa.
«Anche se speravo che fosse un altro» dissi pensando a Mister Manganello.
Il ragazzo venne a sedersi di fronte a me e accettò il caffè che Tómas gli tese. Si sporse sopra il tavolo e con tono serio dichiarò:
«Peter Lime, te lo voglio ripetere: non abbiamo avuto alcun ruolo nell’assassinio della tua famiglia. Né c’entriamo qualcosa con i tre fottuti irlandesi. Sappi che non sono membri dell’IRA, ma dei killer professionisti, dei free-lance le cui pistole e i cui pugni sono in vendita al miglior offerente. Non è la prima volta che si fanno vedere qui in Euskadi e si spacciano per quello che non sono. Non mi chiedere la fonte di queste informazioni perché non la rivelerò». Fece una pausa.
«A quale valigia alludevano? Io non lo so. Ma tu dovresti chiederti chi sia al corrente dell’esistenza di quella valigia e, soprattutto, cosa ci sia dentro di così importante da convincere qualcuno a sguinzagliarti dietro dei tipi del genere. Noi siamo estranei a tutta la faccenda. Tómas è tuo amico: si è precipitato qui non appena Arregui ha telefonato.»
Gli credevo. Mi guardò in silenzio per qualche secondo poi riprese.
«Se fossi in te, d’ora in avanti starei in guardia. Almeno fino a quando non avremo preso gli altri due. Ci penseremo noi a proteggere Arregui, anche se deve ancora nascere l’uomo che gli metterà paura.»
Quando si alzò feci per imitarlo, ma dovetti rinunciarvi perché mi girava la testa. Presi la mano che mi tendeva e la strinsi.
«Se verremo a sapere qualcosa, ci metteremo in contatto con Tómas. Ci interessa mantenere l’ordine nella terra d’Euskadi, e non dimentichiamo mai i nostri amici, né gli amici degli amici» disse.
Scivolò fuori nell’alba incipiente, come un’ombra che vivesse solo di notte.
Provai di nuovo ad alzarmi. Tómas si mise il mio braccio intorno alla spalla e mi sostenne mentre salivo le scale fino al piano di sopra. Poi mi aiutò a sfilarmi i vestiti sporchi e a entrare nella doccia. Il mio fianco sinistro era tutto un livido, e il viso, che avevo visto di sfuggita nello specchio, una maschera tumefatta.
Quando fui avvolto nell’accappatoio, la ferita sotto l’occhio destro disinfettata, chiesi a Tómas di riprovare a chiamare mio suocero. Don Alfonso non rispondeva. Indossai un paio di boxer e mi sdraiai sul letto matrimoniale, Tómas si sedette sulla sponda.
«Tómas…,» esitai «dimentica le mie accuse di poco fa, ti prego. Ero spaventato, sconvolto. So quanto hai rischiato accettando di contattare l’organizzazione e te ne sono grato. Ho un debito nei tuoi confronti e non voglio che…»
Tómas sorrise, ma lo sguardo era stanco.
«Peter, te l’ho già detto un’altra volta. Gli amici non tengono la contabilità.»
Gli parlai del contenuto della valigia: era il mio album privato, un collage della mia storia. A chi mai poteva interessare?
«La risposta a questa domanda non può che essere dentro la valigia stessa» disse.
«Per questo devo andare a Madrid. Devo parlare con Don Alfonso. Ma non ce la faccio a guidare. Credi di potermi accompagnare all’aeroporto?»
«Certo. Adesso mettiti tranquillo e fatti passare i postumi della sbornia.»
Non credevo di avere sonno, ma non appena lasciò la stanza mi addormentai. Sognai di Amelia. Il suo corpo senza vita giaceva su un letto al centro del nostro appartamento ricostruito fin nei minimi dettagli. Più che una casa, adesso sembrava un museo. Infatti pullulava di visitatori che toccavano i vestiti di mia moglie, ammiravano i suoi gioielli e le foto di Maria Luisa con cui avevamo tappezzato un’intera parete. La coda di persone in attesa di entrare si snodava dal nostro pianerottolo giù per le scale, fino in strada, zigzagando per Plaza Santa Ana.