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Fui svegliato dalla sensazione di due ombre accanto al mio letto. Una era Tómas, l’altra un uomo un po’ curvo con un paio di baffetti grigi sotto il naso affilato e capelli radi e arruffati.

Avevo dormito troppo; era pomeriggio inoltrato. Il sole basso illuminava di sbieco la finestra e di lì a poco sarebbe sparito dietro il crinale di ponente. Ero tutto indolenzito e la testa mi pulsava. Il mio stomaco in fiamme stava ancora lottando contro il veleno che i tre bastardi mi avevano fatto trangugiare.

Provai a mettermi seduto.

«Resta giù, Peter» disse Tómas. «Hai un aspetto terribile.»

«Grazie» la mia voce era roca e stridula. «Chi è lui?»

«È il dottor Martinez, un amico» disse Tómas.

«Mi permetta di darle un’occhiata, Señor Lime» disse Martinez. Annuii e lui cominciò a esaminarmi con mani dal tocco leggero, femmineo. A parte un lievissimo trauma cranico, la ferita sotto l’occhio e una costola incrinata, non parevo aver riportato altri danni. Avrebbe voluto portarmi all’ospedale per un controllo, ma rifiutai. Lui sospirò rassegnato. Sicuramente aveva visitato feriti ben più gravi il cui nome non sarebbe mai comparso nel registro di un ospedale.

«La ferita in faccia ha bisogno di qualche punto. Dovrò pensarci io» disse.

Riempì una siringa e mi addormentò la guancia, quindi aspettammo che l’anestesia facesse effetto.

«E Don Alfonso?» domandai.

«Non risponde.»

«Prova ancora.»

«Da stamattina non faccio altro» disse Tómas estraendo il telefonino dalla tasca per digitare nuovamente il numero.

«Devo andare a Madrid.»

«Non oggi» disse il medico mettendosi al lavoro sulla mia guancia indolenzita. Quando ebbe finito applicò un cerotto sui cinque piccoli punti, mi porse un paio di analgesici e una pillola per dormire.

«Lei sembra il tipo che recupera in fretta. Ma ricordi che in questi casi nulla giova quanto il riposo.» Strinse la mano di Tómas, mi rivolse un breve cenno del capo e se ne andò.

La consapevolezza che fosse meglio dar retta al dottore e rimandare la partenza all’indomani mi avviliva. Con un sospiro presi il bicchier d’acqua che Tómas mi porgeva, lo ringraziai, inghiottii le pillole di Martinez e scivolai in un sonno senza sogni.

Al mio risveglio la stanza era avvolta dalla penombra e il mal di testa era sparito. Mi chiesi se fosse il crepuscolo, oppure l’alba del giorno successivo.

Al piano di sotto Tómas dormiva sul divano, completamente vestito. Nel sonno l’espressione indifesa lo faceva sembrare un ragazzo. La cucina era stata pulita, il pannello della porta a vetri sostituito, ogni traccia della visita dei tre ceffi cancellata. Udii i campanacci delle pecore di Arregui e guardai fuori dalla finestra. La luce stava nascendo a est.

Andai al telefono e composi il numero di Don Alfonso. Era libero. Lasciai che squillasse a lungo prima di riattaccare.

Tómas si svegliò nel momento in cui posavo il ricevitore.

«Buon giorno» dissi.

«Ciao, Peter» disse, rizzandosi a sedere. Sorrise e si spettinò i capelli. «Vedo che stai meglio.»

«Cosa vuoi per colazione?»

«Una doccia.»

Non appena fu al piano di sopra cominciai a guardarmi intorno alla ricerca del whiskey. Rovistai in tutti gli armadietti, ma se ne era rimasto dalla notte della rissa Tómas doveva averlo buttato. Mi tremavano leggermente le mani e mi sentivo la gola secca, di una secchezza che l’acqua non sarebbe riuscita a placare. Trovai quattro uova e del prosciutto probabilmente portati da Arregui e mi misi a preparare due omelette. Con un brivido pensai alla forza e alla ferocia di cui il vecchio pastore era capace. Alzai lo sguardo e lo scorsi che risaliva il pendio di fronte a casa insieme alle pecore e ai cani, l’incedere lento e cadenzato come sempre.

Mentre preparavo il caffè, ripensai alle esperienze degli ultimi giorni. Era tardi per tirarsi indietro. Dovevo arrivare in fondo a quella storia e ottenere delle risposte, scoprire perché Amelia e Maria Luisa erano morte.

Adesso che avevo escluso la pista dell’ETA, la valigia era l’unico punto di partenza possibile. Dovevo aprirla — per la prima volta in tanti anni — ed esaminare il suo contenuto, a costo di dissipare l’alone di romanticismo che circondava quei ricordi messi da parte e mai più contemplati.

Finita la doccia, Tómas scese in cucina e insieme facemmo colazione. Gli chiesi notizie dei due irlandesi superstiti, mi disse che apparentemente erano scomparsi da Euskadi senza lasciare traccia. Dopo mangiato fu il mio turno di salire in bagno per una doccia. Quando alzai le braccia per lavarmi i capelli, provai una fitta al torace; poi, davanti allo specchio, fui costretto a radermi con grande cautela, evitando le zone più doloranti del mio viso ancora decisamente malconcio. Ma poco dopo, con il codino a posto e indosso una T-shirt pulita, i jeans e il giubbotto di pelle, ero pronto per andare all’aeroporto e salire sul primo aereo per Madrid. Se mi avesse visto in quello stato, Gloria avrebbe certamente commentato che i lividi e le ferite mi donavano, avvicinandomi all’immagine che avevo sempre sognato di proiettare: quella di un duro, un Indiana Jones reduce di mille avventure. Scoprii di essere sovreccitato e di umore stranamente leggero, quasi che la sbornia, le botte e la lunga dormita mi avessero temporaneamente scrollato di dosso la paura e la malinconia.

Fui fortunato e trovai posto su un volo in partenza poco dopo il nostro arrivo al piccolo aeroporto di San Sebastián.

«Hai un aspetto terribile, ma l’umore è buono. O sbaglio?» chiese Tómas al momento di separarci.

«Non c’è male» ammisi, tendendogli le chiavi della motocicletta. «Fatti un giro. Un po’ d’aria fresca ti farà bene. Verrò a prenderla più avanti.»

«Arregui terrà d’occhio la casa, come sempre.»

«Ringrazialo da parte mia.»

Annuì.

«E grazie anche a te. Grazie… di tutto» dissi incapace di aggiungere altro.

«Farò prendere aria alla tua moto, sta’ tranquillo. Caricherò una ragazza sul sedile posteriore e farò avanti e indietro per le strade di San Sebastián, come quando eravamo giovani.»

Lo abbracciai. La pacca sulla schiena con cui mi salutò mi fece male, e insieme mi fece bene, come la doppia vodka che ordinai non appena l’aereo prese quota e con una lenta virata puntò il muso verso sud, in direzione di Madrid. Il verde delle colline basche, le montagne alte e grigie e le acque verde-azzurre crestate di bianco del Golfo di Biscaglia sparirono sotto le ali dell’apparecchio mentre con mano ferma prendevo il bicchiere che la hostess mi tendeva sorridendo.

A Madrid telefonai a mio suocero, ma la linea era occupata. Maledicendo l’afa e il sudore che già mi incollava la maglietta alla pelle, cercai un taxi e riprovai a chiamare: ancora occupato. Davanti a casa di Don Alfonso era parcheggiata una volante della Policia National. Per un attimo temetti il peggio, ma poi mio suocero apparve sulla porta della veranda insieme a un agente. Se, come credevo, tra i fumi dell’alcol avevo rivelato agli irlandesi che il custode della valigia era lui e qualcuno era venuto fin qui a cercarla, quel qualcuno aveva deciso di risparmiargli la vita. Trassi un sospiro di sollievo.

Pagai il tassista, scesi dall’auto e gli andai incontro. Don Alfonso mi guardò in silenzio qualche secondo prima di tendermi la mano:

«Ti hanno devastato, come hanno fatto con la mia casa» disse facendosi da parte perché entrassi.