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Non lo seguivo più e mi limitai a scrollare il capo.

Si alzò, entrò in casa e tornò con una Coca per me, un bicchiere d’acqua per sé e un biglietto azzurro della corrida di Las Ventas. Avrei preferito una birra, ma non osai dire nulla, perché nell’attimo in cui mi porse la bibita vidi riflessi nei suoi occhi quelli di Amelia. Dopo poco mi allungò il biglietto. Era per la domenica successiva, i nomi dei cuadrilla non mi dicevano niente. Da giovane, sull’onda della mia forte passione per Hemingway e per la Spagna, ero stato un frequentatore assiduo della corrida, ma da tanti anni, ormai, quella gara di morte consumata sotto il sole del pomeriggio aveva cessato di esercitare il suo fascino su di me. Amelia aveva sempre sostenuto che fosse un’usanza barbarica e ormai svuotata di qualunque significato.

Don Alfonso disse:

«Al terzo toro il posto accanto al tuo verrà occupato da un signore della tua età. Avrà il supplemento domenicale di “El Pais” in mano. Ascolta quello che ti dirà».

«Chi è?»

«Diciamo che lavora per lo stato, e che un tempo è stato un mio allievo. È in possesso di informazioni che vuole riferire solo a te, informazioni che potranno condurci un passo avanti nelle indagini.»

«Perché tanti misteri?»

«Ha accettato di infrangere le regole per ripagarmi di un vecchio favore. Ha accesso agli archivi dei servizi segreti franchisti. La democrazia decretò che fossero distrutti, ma non fu così, semplicemente divennero inaccessibili a tutti tranne che a una cerchia molto ristretta di persone. Sono l’equivalente collettivo della tua valigia, piena di storie e foto del passato. Molti preferirebbero che nessuno ci ficcasse il naso, temono ciò che potrebbe saltar fuori.»

«Perché?»

«Perché quando il passato non troppo lontano torna a galla, spesso sembra incomprensibile e insensato, visto con gli occhi del presente. Oggi i tempi non sono ancora maturi, ma lascia passare ancora qualche decennio e quegli archivi serviranno a far luce su uno dei periodi più intricati e travagliati della storia della Spagna. Sui dettagli degli accordi segreti che Franco e gli USA siglarono in nome del comune credo anticomunista, sulle ombre della guerra combattuta contro coloro che volevano rovesciare lo stato, sul ruolo del re nel tentato colpo di Stato del 1981, eccetera.»

Per Don Alfonso le informazioni erano un tesoro da spendere con parsimonia: non dovevano diventare patrimonio di tutti, ma circolare solo tra chi frequentava la stanza dei bottoni.

«Dov’è la mia valigia?» gli chiesi.

«Vieni, andiamo in giardino» disse lui, e si alzò.

11

All’interno della serra l’aria era calda e satura di umidità, il profumo dolce dei fiori si mescolava all’odore della terra. Don Alfonso mi indicò una grossa cassa su cui erano allineati i suoi attrezzi da giardinaggio. Liberato il coperchio dagli attrezzi, Don Alfonso lo sollevò e si fece da parte. La mia valigia era lì, accanto a un paio di secchi vuoti e a una pala rotta.

Mi chinai per estrarla dalla cassa e la portai in veranda: era più pesante di quanto ricordassi. Don Alfonso mi chiese se volessi mangiare qualcosa, ma declinai l’invito.

«La porto in banca. Lasciarla qui sarebbe troppo rischioso» dissi.

«Come vuoi.»

«Potrebbero tornare» aggiunsi.

«Sta a te decidere» ma il tono della voce tradiva una punta di delusione.

Chiamai un taxi. Quando arrivò ringraziai Don Alfonso, buttai la valigia sul sedile posteriore insieme alla borsa con i vestiti di ricambio e montai in macchina. Conoscevo il tassista, un catalano tarchiato con la sigaretta perennemente fra le labbra e il vizio di giocare con la radio saltando da un canale sportivo all’altro. Gli chiesi di fermarsi davanti al piccolo supermecado dove spesso avevo fatto la spesa. Comprai una bottiglia di vodka e sei lattine di Coca e rimontai sul taxi. Aprii una Coca, ne bevvi metà e poi riempii la lattina di vodka. L’autista seguì l’operazione nello specchietto, ma non fece commenti. Del resto che avrebbe potuto dire? Sapeva che lo avrei pagato e che gli avrei lasciato una mancia generosa. Se avevo voglia di mischiare Coca e vodka nel suo taxi, erano affari miei. Presi il cellulare, chiamai l’ufficio e chiesi di Oscar, ma la segretaria mi disse che era andato a giocare a golf. Decisi di raggiungerlo al Golf Club e diedi l’indirizzo all’autista, che annuì con un’occhiata compiaciuta al tassametro ticchettante. Cominciavo a sentire l’effetto della vodka, la cosa mi suscitava rabbia e insieme mi lasciava indifferente.

Negli ultimi dieci anni, in Spagna il golf era diventato sempre più di moda, e nuovi campi erano spuntati un po’ ovunque. Oscar si era iscritto a uno dei club più prestigiosi, sorto nell’area di un ex tenuta vinicola.

Il maniero della tenuta adesso ospitava il bar ristorante del club. Le tegole giallo-brune del tetto splendevano nel sole del tardo pomeriggio. La terrazza era gremita di persone, sedute nelle poltroncine di vimini sotto ombrelloni variopinti. Prendevano l’aperitivo dopo aver giocato, eleganti nelle polo chiare, i berretti e i pantaloni a scacchi.

Chiesi al tassista di aspettare. Con lui la valigia e la borsa sarebbero state al sicuro. Aveva il giornale della sera, le sigarette e la radio a cui dedicarsi, e mi promise che non sarebbe sceso dalla macchina. Andai in terrazza a cercare Oscar, ma non lo vidi. Il suo cellulare era spento, rispondeva la segreteria. Mi aveva spiegato che tenere il telefonino acceso durante una partita era contrario all’etichetta, perciò conclusi che stesse ancora giocando. Chiesi a un cameriere dove fossero le ultime buche, quello mi squadrò, disapprovando la mia faccia malconcia e la tenuta inadatta, e indicò una bandierina a qualche decina di metri di distanza. Vuotai la lattina di Coca, la gettai in un cestino e mi incamminai. Il campo si stendeva ondulato e artificiale nel suo verde troppo verde, un grande parco giochi per adulti-bambini viziati.

Mi fermai tra i cipressi poco lontano dalla bandierina che segnalava la diciottesima buca. Oscar apparve dopo qualche minuto insieme a due uomini, ognuno armato di carrello e sacca portabastoni. Si fermarono. Scorsi la palla di Oscar, bianchissima sul folto tappeto erboso. Prese un ferro dalla sacca, si avvicinò alla palla e fece un paio di rotazioni. Durante i nostri viaggi, mi ero spesso divertito a fargli da caddie quando lui si concedeva un po’ di tempo per giocare. Camminare al suo fianco nel paesaggio vagamente irreale del campo da golf mi rilassava, anche se Oscar era un giocatore irascibile, che aggrediva la palla quasi fosse un serpente pericoloso. Anche quella volta la colpì troppo forte, e la palla volò oltre la bandierina per rotolare fin quasi ai miei piedi. Raccolsi la palla e lo osservai inoltrarsi tra i cipressi scrutando per terra: non mi aveva visto.

«Stai forse cercando questa, Oscar?» domandai tendendogli la pallina.

«Fanculo, Lime!» fece lui. «Lo sai che non devi toccare la palla.»

La feci cadere ai suoi piedi.

«Prendila da lì» gridò uno dei suoi compagni.

Oscar mi scrutò.

«Sei conciato da far schifo» disse.

«Ho avuto qualche problemuccio.»

«Hai ricominciato a bere Coca Cola corretta, eh, Peter?» Mi conosceva bene.

«C’è qualcosa che devo chiederti» dissi.

«Gloria ti ammazzerà quando lo saprà.»

«Non ti ruberò molto tempo» aggiunsi.

«Non hai bisogno di prendere appuntamenti con me, lo sai» ribatté. «Ci faremo un drink come ai vecchi tempi.»

«Perfetto» sorrisi.

«Anche se poi Gloria ci farà pentire di aver ceduto alla tentazione.» Si voltò, si mise in posizione e senza rotazioni di prova colpì la palla con insolita disinvoltura. Quella descrisse un arco elegante e andò a fermarsi ad appena un metro dalla buca. Mi guardò con aria soddisfatta e s’incamminò verso i suoi compagni.