Dopo aver contato e controllato i punteggi e firmato il segnapunti, Oscar si accomiatò dai due amici. Andammo a sederci a un tavolo in fondo alla terrazza, da dove si godeva un’ampia vista del campo che il sole tingeva già di rosso. Arrivò il cameriere, e Oscar mi guardò con aria interrogativa:
«Due gin and tonic» ordinai.
«Allora fai sul serio» disse lui.
«Sono fatti miei» risposi.
«Okay, Peter. Sei grande e vaccinato. Piuttosto, chi ti ha ridotto così?»
Gli raccontai per sommi capi ciò che mi era successo. Intanto assaporavo il mio drink fresco e frizzante e la familiare sensazione di calma che, con ogni sorso, avvolgeva un altro pezzetto della mia mente. Smettere di bere era difficile, ricominciare terribilmente facile. Oscar ascoltò interrompendomi soltanto per manifestare il suo apprezzamento per il coraggio dimostrato dal nostro comune amico Tómas.
A racconto finito mi ammonì:
«Te l’ho già detto, devi smetterla di giocare al detective dilettante. Rimettiti a lavorare. Ascolta la tua voce interiore. Fai ciò che Amelia avrebbe desiderato che facessi, trova la forza di ricominciare, di vivere la tua vita e di fare quello che sai fare: scattare fotografie».
Sicuramente aveva ragione, ma questo non rendeva le cose più facili.
«Mi mancano da morire, Oscar» dissi.
«Mancano anche a noi. E ci manchi tu, Peter. Amelia e Maria Luisa non torneranno. Il lavoro ti aiuterà a superare questo momento. Vieni in ufficio, ricomincia a viaggiare.»
«Prima devo sistemare una faccenda. Tornerò alla fine dell’estate.»
«Okay. Manca meno di un mese ormai, ancora qualche giorno e chiuderemo l’agenzia. Fa troppo caldo e sono partiti tutti. Ma dopo le vacanze voglio vederti in pista.»
Rimanemmo seduti in silenzio per un po’. Il frinire delle cicale si mescolava all’animato chiacchierio degli altri avventori.
«Ti ho mai parlato della mia valigia, una valigia segreta piena di foto?» gli chiesi infine.
«Hai accennato qualcosa l’altro giorno. Gloria mi ha spiegato che ci hai nascosto alcune stampe e tutti i tuoi negativi migliori. Ha detto che è un bene, perché così facendo hai impedito che immagini molto belle andassero perse per sempre, ma che dal punto di vista della causa di risarcimento è una complicazione. Ha intenzione di spremere la compagnia d’assicurazioni fino all’ultima peseta, sai come è fatta Gloria.»
«Io te ne avevo mai parlato?»
«Mi stai chiedendo se te lo sei lasciato sfuggire, magari sotto l’effetto di una bella sbronza? È questo che vuoi sapere?» domandò.
«Esattamente.»
Si sporse verso di me.
«No, ne ho sentito parlare per la prima volta l’altro giorno. In qualche occasione menzionasti una cassa di vecchie foto che tenevi in soffitta, ma pensai che fossero foto di famiglia. Del resto non mi stupisce che tu abbia pensato alla valigia, sei sempre stato maledettamente attento, puntiglioso e ordinato quando si tratta di lavoro. Anche quando la tua vita era un caos totale, selezionavi, ordinavi e catalogavi sempre le foto nel tuo bell’archivio. Perché me lo domandi?»
«Credo che la ragione della morte di Amelia e Maria Luisa sia nascosta nella valigia.»
«Perché vuoi continuare a tormentarti? Lascia perdere. Hai ancora molti anni davanti a te, Gloria e io non sopportiamo di vederti così infelice.»
«Sei un buon amico, Oscar.»
«E allora dammi retta, accidenti!»
«Ti darò retta dopo l’estate.»
Dalla sua espressione sembrava sul punto di aggiungere qualcosa, ma poi ci ripensò e si abbandonò contro lo schienale della sedia.
«Conosci la ragazza della foto, vero?, quella con la chitarra?» Fui il primo a stupirmi della mia domanda, poiché non sapevo da quale associazione fosse scaturita: forse era l’alcol a rendere più fluidi pensieri e intuizioni.
Oscar mi parve sorpreso poi fissò su di me uno sguardo contrariato.
«Quale ragazza?»
«E piantala, Oscar.»
«Ho l’impressione d’averla vista prima, ma non riesco a fare mente locale. Sono passati trent’anni.»
«Perché non mi hai detto subito che la conoscevi?»
«Non ne ero sicuro.»
«Però la conoscevi.»
«Credo di sì. Oppure mi ricorda qualcuno. A quel tempo le donne erano tutte uguali, niente trucco e ascelle pelose.»
«Che caso! Prima di incontrarci entrambi abbiamo conosciuto quella donna, non ti pare strano?»
«No. Noi rivoluzionari credevamo di essere la maggioranza, invece eravamo una minoranza, le stesse facce spuntavano a tutte le manifestazioni, le assemblee e compagnia bella. Il nostro incontro non fu frutto solo del caso, lavoravamo tutti e due per la stampa, frequentavamo gli stessi ambienti. Sarebbe stato più strano se non ci fossimo conosciuti.»
C’era del vero in quello che aveva detto. A Madrid negli anni Settanta era facile imbattersi in giovani volti già incrociati in giro per l’Europa. Studenti italiani e francesi, rivoluzionari della Germania dell’Ovest, danesi avventurosi come me, disertori americani del Vietnam: appartenevamo tutti alla stessa tribù, mobile ma in fondo ristretta.
«Conoscevi anche l’uomo della foto?» gli domandai.
Lui scosse la testa e vuotò il bicchiere.
«Non l’ho mai visto» disse, e gli credetti.
Oscar guardò l’orologio e mi offrì un passaggio in centro, dove avremmo potuto andare a cena fuori insieme a Gloria. Gli risposi che preferivo rimanere un altro po’. Si allontanò salutando gente a destra e a manca mentre ordinavo un altro gin tonic. Finito il drink, tornai al taxi e mi feci portare all’Hotel Inglés in Calle Echégaray, all’angolo di Plaza Santa Ana. Scegliere un albergo a pochi passi dal luogo dell’esplosione costituiva certamente una decisione masochistica. Ma dell’Inglés apprezzavo la conduzione familiare, la discrezione, le grandi stanze. La camera era una doppia, ma me la diedero al prezzo di una singola, perché in passato avevo spesso indirizzato qui chi voleva trascorrere un paio di giorni piacevoli a Madrid a un prezzo abbordabile. Carlos, della reception, mi conosceva, e non volle vedere i documenti. Oltre al letto matrimoniale, nella stanza c’erano un tavolo, una sedia dallo schienale alto, un mini-bar, un telefono e un televisore. Le pareti, coperte di carta da parati sbiadita, erano decorate con riproduzioni di incisioni di Goya e Picasso, raffiguranti la sabbia insanguinata dell’arena. Il bagno era pulito e grande come quelli di una volta, con una vasca rosa.
Sistemai la valigia dietro la porta e buttai la borsa sul letto. Pensai con soddisfazione che nessuno sapeva dove fossi. Scesi in strada e mi diressi verso l’istituto di karate, pochi metri più in là, in fondo alla Calle. Mi rendevo conto di rinviare l’esame delle mie foto, ma sentivo di avere bisogno della compagnia del vecchio Suzuki, del tocco consolatorio delle sue mani.
Nello spogliatoio della palestra mi chinai a togliermi le scarpe e rialzandomi mi trovai di fronte il figlio più piccolo di Suzuki.
«Mio padre ti ha aspettato, Lime-san» disse nel suo ineccepibile spagnolo.
Lo salutai e proseguii il processo di svestizione, fermandomi ad ammirare le sfumature gialle e violacee dei lividi che avevo sul petto e sul fianco.
Feci una doccia, mi avvolsi in un asciugamano e mi distesi sul lettino nella stanzetta più interna dell’edificio. Nella sala grande alcuni allievi si stavano allenando, si udivano tonfi, grida in giapponese e il sibilare dei piedi nudi nell’attacco.
Suzuki entrò avvolto nel suo kimono bianco. Fece un inchino e io mi alzai per ricambiare rispettosamente il saluto. Era piccolo e muscoloso, vicino ai settanta, molto ben portati. I capelli, cortissimi, erano ancora di un nero scintillante.
«Benvenuto, Lime-san» disse. «Distenditi e trova pace nella tua anima. Ho saputo della tua disgrazia e leggo il dolore nei tuoi occhi.»