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«Sono sicuro che le vittime delle torture e i giustiziati apprezzarono la nobiltà delle sue intenzioni. No. La Spagna era il bubbone purulento d’Europa. Un orrendo relitto fascista.»

L’uomo continuò con lo stesso tono pacato.

«L’alternativa era il caos. Poteri molto forti congiuravano per la rovina della Spagna. Dentro il paese e fuori del paese. Senza il Generalissimo la Spagna non sarebbe riuscita a seguire la strada che l’ha condotta sana e salva fuori dal passato.»

Nelle sue parole sentivo l’eco dei discorsi dei servitori di altre dittature. Avevano parlato così gli informatori della STASI nella defunta DDR e i boia fascisti di tanti paesi latino-americani. Agivano per una causa. Eseguivano semplicemente degli ordini. Rifiutavano ogni responsabilità, ma difendevano le loro azioni fino alla morte, perché altrimenti la loro vita non avrebbe avuto senso.

«Lei è uno storico?» chiesi.

Scoppiò a ridere.

«Una specie. Ma non siamo qui per discutere di politica o di storia. Io sono qui per saldare il debito che da anni mi lega a un uomo che stimo.»

Volevo aggiungere qualcosa su Franco, ma in quel momento i fischi e le urla del pubblico si fecero assordanti. Il terzo toro zoppicava vistosamente. Il torero alzò lo sguardo sul presidente, e poco dopo fu fatto entrare nell’arena un branco di buoi. Insieme a essi, il toro avrebbe lasciato l’arena mansueto come un agnellino, per essere ucciso tramite scarica elettrica da un efficiente macellaio in attesa nei corridoi sotto Las Ventas.

«Tutte le strade conducono alla morte» commentò l’uomo seduto accanto a me.

«Lei sa come mi chiamo, ma io non so come si chiama lei» dissi.

«Può chiamarmi Don Felipe.»

«Don Felipe. Se lei non è uno storico, allora chi?»

Come Don Alfonso, preferiva parlare per enigmi e in maniera indiretta, anche se rispetto a mio suocero era loquace. Probabilmente era stato un agente segreto sotto Franco. Dall’accento si sarebbe detto originario del sud.

«Non mi fraintenda,» disse sporgendosi verso di me «non sono un nostalgico della dittatura. Infatti il nostro lavoro aveva l’unico scopo di combattere il comunismo e l’anarchia, in modo che la Spagna potesse diventare matura per la democrazia. Avevamo molti nemici: bolscevichi, terroristi, separatisti. La mia specialità erano i servizi segreti sovietici, il KGB.»

«Lo stesso valeva per Don Alfonso?»

«Don Alfonso aveva le sue mansioni, io le mie.»

«Ossia?»

«Difendere lo Stato e le sue istituzioni. Fare in modo che i buoni cittadini potessero dormire tranquilli la notte.»

«Credevo che questo fosse anche il compito di mio suocero» dissi.

«Don Alfonso si concentrava sui nemici interni. Io lavoravo sugli agenti stranieri, gli infiltrati.»

«I russi?»

«Appunto. Ma il potere sovietico si serviva volentieri dei cubani. Si adattavano meglio, come dire, all’ambiente.»

Così quell’uomo si era occupato di controspionaggio.

«Okay» dissi vuotando il bicchiere. Volevo prenderne un altro, ma avevano fatto entrare il toro di riserva, e la vendita era stata temporaneamente sospesa.

Don Felipe riprese a parlare.

«Il suo nome comparve in alcuni rapporti…»

«Quali rapporti?»

«Frutto di intercettazioni, pedinamenti, perquisizioni segrete, informatori. Allora erano cose normali, di routine.»

Il pubblicò a un tratto s’infiammò, e io mi concentrai su quanto avveniva nell’arena.

L’orchestra attaccò il paso doble. Il giovane andaluso di cui avevo sentito parlare all’entrata stava attirando a sé il toro descrivendo con la cappa rossa cerchi dal diametro sempre più ridotto.

Il toro gli era così vicino da imbrattargli di sangue il vestito, un po’ più rosso ad ogni passaggio. Il torero voleva prolungare il più possibile quello stupendo, macabro balletto, incitato dalla musica e dai fragorosi «olé» degli spettatori. Ma sapeva che con ogni passo l’animale si avvicinava alla verità: presto avrebbe capito che la cappa rossa nascondeva una persona. Il giovane eseguì una piccola coreografia a beneficio del pubblico in tripudio e andò a prendere la spada.

«Speriamo che l’uccisione sia all’altezza di quanto abbiamo appena visto» disse Don Felipe in tono deferente.

Il giovane torero si mise in posizione, poi si alzò sulle punte e, nel prendere la mira, inchiodò gli occhi del toro alla cappa rossa costringendolo a offrirgli la porzione di dorso in cui la lama sarebbe affondata fino agli organi interni. Nell’arena avvolta dal silenzio, agitò leggermente il polso in un istante che parve lunghissimo, sospeso. Poi uomo e animale si lanciarono all’attacco, il torero colpì e la bestia cadde in avanti. Rimase in quella posizione per qualche secondo, rigurgitando sangue, prima di stramazzare sul fianco. L’aiutante si fece avanti per infliggergli il colpo di grazia con il suo coltello a lama corta. Ci alzammo per partecipare all’applauso scrosciante che il pubblico tributava al ragazzo, fermo accanto alla sua preda abbattuta. Con il permesso del presidente, le due orecchie e la coda furono mozzate e consegnate al torero come trofeo, poi l’animale fu trascinato in giro per l’arena dai muli per ricevere il tributo che spettava al coraggio da lui dimostrato.

Avevo dimenticato come quello spettacolo barbaro potesse all’improvviso trasformarsi in arte sublime, cancellando la compassione che poco prima avevo provato per la sorte dell’animale.

«Ringraziamo Dio per averci fatto assistere a questo indimenticabile spettacolo, a uno di quei rarissimi momenti in cui l’arte nasce e muore» disse Don Felipe.

«E anche Don Alfonso per i biglietti!» scherzai.

Rise.

«Già. Adesso ci conviene andare. Per oggi non accadrà nulla di altrettanto speciale.»

«Credevo che avesse qualcosa da dirmi.»

«Infatti. Ma è inutile che restiamo seduti qui. Come le ho detto, lo spettacolo adesso non può riservarci che delusioni, e io ho avuto modo di accertarmi che nessuno ci sta spiando.»

«Come fa a esserne sicuro?»

«Deve fidarsi di me, Señor Lime. Visto che io mi fido di lei. Venga!»

Si alzò, risalimmo le gradinate e raggiungemmo uno dei bar situati all’interno dell’edificio di Las Ventes. Ordinò due cognac, poi andammo a sederci sotto un arco da dove, attraverso la finestra senza vetri, potevamo vedere lo spiazzo antistante l’arena ancora piena di gente vociante.

Don Felipe mi porse il supplemento patinato di «El Pais».

«Ci troverà un rapporto d’intercettazione. Proviene da un archivio che ufficialmente non esiste più da anni. Ho cancellato i numeri di riferimento che potrebbero identificarne la provenienza se dovesse finire nelle mani sbagliate, ma ha la mia parola che è autentico. Con questo infrango la legge, infrango il segreto d’ufficio e il giuramento fatto al Generalissimo di non rivelare mai i segreti inerenti il mio lavoro, ma saldo il mio debito nei confronti di un uomo il cui lutto mi addolora profondamente.»

«Che cosa c’è scritto?»

«Lo legga. È una conversazione fra due uomini. Uno si chiama Victor Ljubimov. Per molti anni è stato il responsabile dell’ufficio culturale dell’Ambasciata Sovietica di Parigi, ma i suoi veri datori di lavoro erano i vecchi servizi segreti sovietici. Per conto del KGB aiutava il PCE, il partito comunista spagnolo. Come lei sa, prima della transición il partito era illegale.»

Annuii. Con la parola transición gli spagnoli si riferivano ai due anni intercorsi fra la morte del generale Franco, avvenuta nel 1975, e le prime libere elezioni politiche del giugno 1977. Poco prima di morire Franco aveva fatto giustiziare cinque persone. Non esisteva alcuna garanzia del fatto che il re o i politici del vecchio regime avrebbero scelto la via della democrazia. Toccò al settore più aperto dell’unico partito legale sotto Franco intraprendere il dissolvimento del vecchio sistema di potere e traghettare il Paese verso la democrazia, sventando il pericolo di un colpo di stato militare alla sudamericana.