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Hippy: Ha viaggiato molto. È un po’ un vagabondo, ma in gamba, dicono. Libano, DDR, Mosca. Va ovunque ci siano foto interessanti da scattare.

Victor: È conservatore?

Hippy: Progressista, liberale. È un ammiratore del pensiero anarchico di Durruti…

Victor: E lo chiami progressista?

Hippy: Non è un reazionario, è… plasmabile.

Victor: Firmerebbe un contratto?

Hippy: Forse. Ma lo vedo meglio come informatore e collaboratore a sua insaputa. Ha molte conoscenze nonostante la giovane età. È sempre in bolletta, beve troppo e gli piacciono le ragazze. Di conseguenza i soldi potrebbero fargli gola, in prospettiva.

Victor: La faccenda mi sembra promettente. Come si chiama?

Hippy: Lime. Peter Lime.

Victor: Okay. Continua a lavorarci. Hai già ottenuto buoni risultati con un danese in passato. È un popolo di ingenui, e spesso condividono i nostri principi anche se non hanno la vocazione all’impegno militante. Ma non dimenticarti degli spagnoli. Quelli hanno la priorità assoluta.

Hippy: Okay.

Victor: I soldi sono nel solito posto. Distribuiscili in giro.

Hippy: Okay.

Victor: E abbi cura di te. Questa è una fase delicata, cruciale.

Hippy: Non è sempre così?

I soggetti escono dal soggiorno e concludono la conversazione nell’ingresso.

La squadra d’intercettazione ritiene che le indagini debbano continuare. Suggerisce di procedere al pedinamento del citato Peter Lime, di intensificare gli sforzi per stabilire l’identità di Hippy, nonché di allertare la sezione in Navarra e rafforzare la sorveglianza al confine.

Rilessi le righe che parlavano di me da giovane. Il pensiero di essere stato argomento della conversazione dei due agenti mi metteva a disagio. Mi avevano fatto pedinare, e ciò costituiva una pesante intrusione nella mia vita privata, una violenza bella e buona. Mi accorsi che le mani mi tremavano leggermente. Mi chiesi chi potesse essere Hippy. Era un agente della DDR oppure lavorava per il KGB? Era possibile che fosse servo di due padroni, una specie di doppiogiochista? Rividi Oscar in una versione giovanile, ma subito l’ipotesi che potesse trattarsi di lui mi parve assurda: lo avevo conosciuto soltanto all’inizio della primavera del 1977, e per caso. L’immagine che conservavo dell’Oscar di allora — un giovane uomo ciarliero, affascinante e spiritoso — non combaciava con il profilo dell’agente dal sangue freddo che parlava di esplosivi e attentati come fossero banane.

Sentivo un fastidioso formicolio alle gambe, così mi alzai per cercare qualcosa di forte, ma da parecchi anni Oscar e Gloria non tenevano più superalcolici in ufficio. Presi un’altra birra e telefonai a Don Alfonso. Rispose subito, quasi stesse aspettando la mia telefonata.

«Sono io»

«Dimmi, Pedro.»

«Ho bisogno di parlare con il tuo Don Felipe.»

«Non è possibile. Cosa c’è?»

«La storia del pedinamento, io… mi sento sporco, ecco» dissi. «Lo so, è completamente irrazionale, ma…»

«È una reazione molto umana, Pedro.»

«L’identità di Hippy è mai stata scoperta?»

«No.»

«Perché?»

«I francesi si stancarono degli intrighi di Victor Ljubimov a Parigi, lo smascherarono e lo espulsero. A quel punto non era più utilizzabile in alcun paese occidentale. Hippy fu assegnato a un nuovo agente, ma non siamo riusciti a scoprire dove s’incontrassero. Tu hai idea di chi sia?»

«Può darsi» esitai. «Cosa sapete sul conto di Oscar?»

Mi accorsi di avere le palme delle mani sudate, nonostante l’aria condizionata.

«Mi aspettavo che avresti fatto questa domanda. Quello che sai anche tu. Nato ad Amburgo. Ex giornalista di sinistra, molto radicale in gioventù. Oggi è un ricco, rispettabile residente che paga regolarmente le tasse. Non c’è altro.»

Mi sentivo sollevato.

«E su di me? Che informazioni avete raccolto su di me?»

«Su di te non c’è nulla.»

«Come è possibile? Mi avete fatto seguire, lo dice il rapporto di intercettazione!»

«Ti ripeto che sul tuo conto non abbiamo niente. Questo non significa che tu non sia stato spiato. I servizi segreti sono burocrazie, e le burocrazie fanno un mucchio di errori. I rapporti non vengono archiviati correttamente, addirittura distrutti, i numeri di riferimento spariscono, i nomi di copertura vengono cambiati e i rimandi non vengono registrati. I nostri agenti e i nostri ufficiali sono esseri umani, con tutta la sete di potere, le debolezze, la stupidità che questo comporta. Abbiamo i tuoi dati, la conferma che sei benaccetto in Spagna, sappiamo che non evadi le tasse, tutto qui.»

«E la morte di Amelia e Maria Luisa? Perché?»

Tacque per qualche secondo poi disse:

«Fossi in te telefonerei alla donna di Copenaghen».

«Cosa può fare per me?»

«La chiave di tutto potrebbe trovarsi a Berlino. La Hoffmann può accedere ai loro archivi più facilmente di me. Fammi sapere, Pedro.»

Riagganciò. Evidentemente parlare di quelle cose al telefono lo metteva a disagio.

Accesi una sigaretta e recuperai l’appunto con i numeri di Clara Hoffmann. Era domenica sera, così la chiamai a casa.

«Sono Peter Lime. Telefono da Madrid.»

«Buona sera, Peter. Non speravo più che ti saresti fatto vivo.» Allora ci davamo del tu.

«Ho qualcosa sulla fotografia che mi hai mostrato» dissi.

«Di cosa si tratta?»

«Ho trovato un’altra foto, e ho trovato un nome.»

«Molto interessante.»

«Non mi sembra il caso di parlarne al telefono. Vorrei discuterne a quattr’occhi. C’è anche un’altra faccenda, credo che tu possa aiutarmi a chiarire alcuni aspetti.»

«Certamente.»

Sentivo una musica sommessa all’altro capo del filo, e immaginai di averla interrotta mentre si rilassava in poltrona, con un libro e il suo disco preferito in sottofondo. Un’atmosfera accogliente, come quella che regnava nelle case danesi della mia infanzia. A Madrid avevo notato che non portava la fede. Forse viveva sola. Come me. Anch’io ero solo, e solo sarei rimasto, per tutta la vita. Mi venne in mente il verso di una canzone di Janis Joplin: Freedom’s just another word for nothing left to loose, libertà vuol dire solo non aver più nulla da perdere. «Peter, ci sei?»

«Sì, scusa. Mi sono distratto. Hai detto qualcosa?» «Ti ho chiesto se devo venire a Madrid.» «No. Vengo io a Copenaghen domani, se riesco a trovare un biglietto. Altrimenti dopodomani. Ti chiamo.»

«Bene. Sono ansiosa di vedere l’altra foto.» «A presto, allora» e riagganciai.

15

Dopo la telefonata a Clara, mi fermai ancora mezz’ora in ufficio a bere birra. Poi tornai in albergo dove chiesi a Carlos di procurami una bottiglia di vodka che mi scolai quasi per intero. Trascorsi una notte d’inferno, nelle spire di una sbornia e una disperazione colossali. Vivere non m’interessava più. Rimpiansi di non avere una pistola, disprezzandomi perché sapevo che comunque non avrei trovato il coraggio di usarla. Parlai con Amelia e Maria Luisa, avevo l’impressione che fossero nella stanza, e che mi rispondessero.

L’indomani mi svegliai con le mani tremanti, lo stomaco in fiamme e un mal di testa martellante. La stanza puzzava di fumo e di alcol. Il clamore di Calle Echégaray mi rimbombava nel cervello. Bevvi un paio di bottigliette di acqua minerale e mandai giù due analgesici, mi liberai dei vestiti con cui avevo dormito e feci una doccia. Poi scesi in strada e mi infilai nel primo bar per un caffelatte e dell’altra acqua. Telefonai alla SAS: il volo per Copenaghen partiva alle 15.15, l’arrivo era previsto per le 18.25. C’erano ancora parecchi posti liberi, e ne prenotai uno. Quindi riservai una stanza all’Hotel Royal.