Cominciavo a sentirmi meglio. La strada, immersa nella splendente luce mattutina, brulicava della normalità del lunedì, e il paesaggio metropolitano profumava di fresco e di nuovo. Nulla faceva presagire la cappa umida e afosa che di lì a qualche ora avrebbe stretto d’assedio Madrid.
Tornai in albergo per raccogliere le mie cose e affidare la valigia con le foto a Carlos.
Rispose che l’avrebbe sistemata in cantina. Potevo lasciarcela per tutto il tempo che volevo, sarebbe stata al sicuro, almeno finché l’Hotel Inglés non fosse crollato.
Mi restò giusto il tempo per comprare qualche vestito e pranzare con una zuppa di verdure e una trota al forno prima di salire su un taxi diretto in aeroporto.
Una volta a bordo dell’aereo, cedetti alla tentazione di un Bloody Mary, che subito ebbe l’effetto di placare le mie formicolanti terminazioni nervose. Dopo un quarto di vino mi addormentai, forse per sfuggire alla coscienza che mi rimordeva. Mi svegliai quando ormai eravamo in fase di atterraggio. Sotto di noi l’0resund si stendeva azzurro e scintillante, punteggiato da una miriade di vele bianche, il ponte simile a un paio di braccia protese.
Copenaghen era la stessa di sempre, splendida nel sole del tardo pomeriggio. Il brulicare di biciclette colorate, il traffico scorrevole e tranquillo, l’aria fresca spruzzata del lieve profumo salmastro dell’0resund.
Andai in albergo. Per il momento non avrei telefonato a nessuno. Sforzandomi di rimanere alla larga dal minibar, accesi la TV e mi dedicai allo zapping. Stavo pensando a Bruce Springsteen e alla sua canzone Fiftyseven channels and nothing on quando un servizio del telegiornale catturò la mia attenzione: l’argomento era Lola. Il giornalista era un tipo che conoscevo, si chiamava Klaus Pedersen, e l’avevo visto l’ultima volta dieci anni prima, quando ancora lavorava al quotidiano «Jyllands Posten». Anche lui, come me, appariva invecchiato. Klaus mi aveva ingaggiato in un paio di occasioni per dei servizi a Madrid, e una volta eravamo partiti per il Sahara occidentale per un reportage sui guerriglieri del Fronte Polisario. Il servizio parlava della scomparsa di Laila Petrova, ma l’avevo riconosciuta subito. Si sospettava che Lola fosse scappata con parte dei fondi destinati al museo di cui era direttrice. Adesso il ministro della cultura aveva perso la poltrona a causa di quella storia, cui Clara aveva accennato nella nostra conversazione alla Cervecería. Sul video scorrevano le immagini del nuovo museo internazionale d’arte moderna, a sud di Copenaghen: un edificio bianco-grigio la cui mole faceva pensare a una grande nave arenata. La voce di Klaus Pedersen riassumeva efficacemente il caso. La direttrice, Laila Petrova, in possesso di ottime referenze da Londra e del Museo d’arte Manége di Mosca, era sparita. Dalle indagini, condotte fra l’altro da un giornalista del «Jyllands-Posten», era emerso che non possedeva i titoli accademici dichiarati. Apparve il ministro della cultura, circondata da una foresta di microfoni e mini registratori. Doveva essere più o meno mia coetanea, aveva il viso segnato e l’aria provata. Dichiarò che il compito di controllare le referenze di Laila Petrova spettava ai suoi funzionari, non aveva altro da aggiungere.
Sullo schermo apparve il viso ingrassato di Klaus:
«Laila Petrova fu assunta dietro viva raccomandazione del ministro della cultura, anche se nessun membro di spicco del mondo artistico danese la conosceva. A chi sollevava obiezioni e caldeggiava altre, più ovvie candidature, il primo ministro rispose che la Petrova rappresentava una scommessa intelligente e coraggiosa. Oggi la responsabilità di quella scelta ricade unicamente sull’ex ministro della cultura. Ma le vere vittime di questa scandalosa e mortificante vicenda sono i contribuenti danesi».
Il servizio si chiudeva con una serie di foto probabilmente risalenti alla cerimonia d’inaugurazione del museo. Mostravano Lola in uno spumeggiante vestito cremisi. Era accanto alla regina che, in confronto a lei, appariva insignificante, dimessa.
«Ben fatto, Lola!» dissi ad alta voce e chiamai la reception per farmi dare il numero di telefono del telegiornale.
Quando chiesi di Klaus, la centralinista mi mise in attesa, poi tornò in linea annunciando che me l’avrebbe passato.
«Ciao, Klaus. Sono Peter Lime.»
«Peter, accidenti! Quanto tempo è passato. Come stai?»
Sullo schermo del televisore scorrevano adesso le previsioni del tempo.
«Non c’è male, e tu?»
«Abbastanza bene. Chiami da Madrid?»
«No. Sono a Copenaghen. Ho appena visto il tuo servizio su Lola.»
«Laila.»
«Il suo vero nome è Lola. È una vicenda molto interessante. Ricorda un po’ la storia del re nudo: si presenta un’affascinante signora con un pizzico di savoir faire e tutti cascano ai suoi piedi, senza preoccuparsi di verificare che sia ciò che dice di essere.»
«Proprio così. Le è bastato sbattere le ciglia e tutti i piccoli socialdemocratici che ci tenevano tanto a passare da esperti le hanno fatto ponti d’oro. La conosci, Peter?»
«Sì.»
«Senti senti!» esclamò con l’eccitazione del cacciatore di notizie che fiuta uno scoop.
«Sono al Royal. Se vuoi, ti offro un drink e ti racconto di lei.»
«Accidenti, non posso. Ho promesso di tornare a casa» rispose dopo un secondo di esitazione.
«Cosa hai combinato?»
Quella non era una risposta da Klaus Pedersen. Ai vecchi tempi se ne infischiava della famiglia. Viveva solo per i reportage dall’estero e approfittava di qualsiasi occasione per fare un viaggio a spese del giornale.
«Qualche anno fa ho divorziato da mia moglie e mi sono risposato. Sì, con una fotomodella più giovane di me. Così adesso ho una seconda nidiata di figli, il piccolino soffre di coliche che lo fanno urlare come un ossesso. Se non vado a casa a darle il cambio, mia moglie non mi rivolgerà la parola per le prossime due settimane.»
«Capisco.»
«Sai com’è. Io, con l’età che ho, non desideravo altri figli, però uno non può mica permettersi di dire di no, quando la moglie più giovane vuole metter su famiglia, o sbaglio?»
«Giusto.»
«Ho mollato gli esteri per lo stesso motivo. Tutti quei viaggi mi sono costati il primo matrimonio. Allora ho fatto domanda per un posto alla redazione interna del telegiornale. Turni fissi e a casa tutte le sere. Non posso proprio permettermi un secondo divorzio.»
«Come non detto, Klaus.»
«Tu hai figli?»
«No» risposi con un nodo alla gola. «Niente figlio.»
«Sei rimasto il lupo solitario di sempre. Comunque ci tengo a incontrarti. Perché non vieni qui da me domani?»
«Ottima idea» risposi.
«Facciamo verso le undici? Chiedi alla receptionist. Ah, no, scusa: quella l’hanno mandata a casa per risparmiare. Chiamami prima di lasciare il Royal, così scendo e ti vengo incontro.»
«Perfetto. E salutami la nuova signora Pedersen.»
«A domani. Mi ha fatto piacere risentirti.»
Per scacciare la tentazione di aprire il minibar, feci qualche flessione. Poi lessi l’«Herald Tribune», dall’attualità agli editoriali fino alle cronache sportive più le strisce di Calvin and Hobbes. Mi addormentai davanti al film trasmesso da un canale via satellite.
L’indomani mi svegliai molto presto. Rimasi per qualche tempo a letto a guardare gli insulsi programmi televisivi del mattino: un talk show ambientato nel finto soggiorno di una casa, lezioni di cucina, l’intervista a una giovane cantante discinta recentemente proclamata uno dei migliori talenti della musica pop.