Mi sintonizzai sulla CNN, poi mi alzai per fare la doccia.
Attesi che fosse un’ora decente per telefonare a Clara Hoffmann. A giudicare dalla voce pimpante doveva essere sveglia da un pezzo. Il suo appartamento si trovava a pochi minuti di cammino dall’albergo, disse, quindi poteva passare prima di andare in ufficio, di lì a mezz’ora.
Scesi nel bar accanto alla lobby per aspettarla. Mi sedetti in un punto dal quale potevo tener d’occhio la porta e ordinai un bricco di caffè con due tazze. Un gruppo di turisti giapponesi ascoltava attento le istruzioni della guida, un manager in abito scuro armato di ventiquattrore e computer portatile saldava il conto tra continue occhiate all’orologio e al cellulare. Il mio lo avevo lasciato all’Hotel Inglés di Madrid. Essere irreperibile e godere del privilegio dell’anonimato in una città familiare come Copenaghen era un’esperienza bellissima.
Da uno degli ascensori emerse un tipo alto e dinoccolato con indosso una vecchia giacca e jeans sbiaditi, i capelli raccolti in un codino. Aveva con sé un’ingombrante borsa da fotografo.
Fui tentato di fingere di non averlo visto, ma mi venne in mente la volta in cui avevamo aspettato per ore fianco a fianco davanti alla palestra di Lady D, e cambiai idea. Si chiamava Derek Watson, era australiano, e come me dava la caccia al jet set da vent’anni. Una delle sue foto più fortunate ritraeva proprio Diana, insieme ai figli, il lungo abito nero sollevato a mostrare le gambe, causa un’improvvisa folata di vento. Sia la Ospe che Derek avevano guadagnato soldi a palate grazie a quell’immagine.
Era alla reception con in mano la carta di credito quando lo raggiunsi e gli diedi un colpetto sulla spalla.
«Ehi, Derek. Come va?»
«Lime! Che piacere vederti.»
«Prendi un caffè?» gli domandai.
Guardò l’orologio.
«Lo farei con piacere, ma devo prendere un volo.»
Esitò. «Ho saputo la notizia… ho incontrato Gloria a Londra. Dio, mi dispiace, Peter.»
Annuii.
Il receptionist gli allungò la ricevuta e lui firmò.
«Ho saputo che sei uscito dalla mischia» disse lui.
«Per il momento, almeno.»
«Ci ho pensato anch’io. Ormai tutti quelli che hanno una macchina fotografica in mano passano per pedofili, o per assassini, come dopo la morte di Diana e Dodi. Il giorno successivo all’incidente l’edicolante del mio quartiere si rifiutò addirittura di vendermi i giornali, mi considerava colpevole in prima persona. E pensare che si guadagna da vivere grazie alle foto che scattiamo noi…»
Allargò le braccia. «Ti ricordi che incubo? La folla. I media. Pace, amore, fiori, ipocrisia e merda su tutta la linea. E gli orsacchiotti!»
«Bisogna morire giovani, così si diventa martiri e santi» dissi io.
«Tu non eri a Londra, vero?» continuò lui.
Ripeteva parole già pronunciate centinaia di volte, per il gusto di quattro chiacchere fra colleghi.
«No. Non c’ero, ma anche a Madrid tutti persero la testa.»
Gli dissi che non volevo trattenerlo e gli raccomandai di salutare per me Gloria e Oscar se li avesse incrociati.
«Per quanto tempo hai intenzione di fermarti qui in Danimarca?»
«Non ne ho idea. Forse una settimana. Forse solo fino a domani.»
«Uscito dalla mischia, eh, Lime? Vorrei essere al tuo posto. Be’, ciao. See you around.»
Fece il gesto di avvicinare la destra a un berretto immaginario e uscì dall’albergo. Mi chiesi cosa lo avesse portato a Copenaghen. Un tipo come Derek non avrebbe mai potuto rinunciare alla professione. Al brivido della caccia. Se anche fosse riuscito a sorprendere Clinton senza pantaloni con una ragazza inginocchiata fra le gambe, non si sarebbe accontentato della valanga di denaro che quel genere di colpo gli avrebbe fruttato: avrebbe continuato a viaggiare per il globo sulle tracce del vip di turno, contento di aspettare intere giornate, con la pioggia e con il sole, pur di strappare uno scatto buono.
Il suo mondo mi parve al contempo attraente e terrificante. Sapevo di dover scegliere: potevo tornare all’agenzia e all’attività a cui da sempre mi dedicavo con successo, oppure rimanere in quel vuoto sospeso tra l’oblio e la memoria.
In piedi nella lobby seguii con lo sguardo Derek, che, oltre la porta a vetri dell’hotel, buttava la valigia sul sedile posteriore di un taxi, prendeva posto accanto all’autista e si accendeva una sigaretta ripetendo l’ordine di portarlo all’aeroporto. Sapevo cosa avesse in testa: nuovi incarichi, nuove amanti, il gusto e la paura dell’assenza di radici che era la cifra della sua vita. La consapevolezza di stare invecchiando e l’ansia di morire da solo. Tutti sentimenti che conoscevo e che adesso contemplavo con un senso di nostalgia e di sollievo.
Chiesi i giornali danesi del mattino all’impiegato della reception e tornai a sedermi davanti al bricco di caffè. Nel paese non accadeva nulla di straordinario, a parte lo scandalo di Lola e l’inasprirsi di un’ondata di xenofobia il cui resoconto mi sorprese e mi rattristò.
Trascorsi alcuni minuti alzai lo sguardo e vidi Clara Hoffmann entrare dalla porta girevole.
Sembrava più giovane rispetto a quando l’avevo conosciuta a Madrid. Indossava un paio di jeans e una blusa beige sotto cui si intravedeva il reggiseno. A tracolla portava una borsa capiente. Il suo corpo era senza età, asciutto come quello di Amelia. Notai che aveva cambiato pettinatura: adesso i capelli erano corti e ricci. Forse era quel nuovo taglio a farla apparire più giovane. Sotto un trucco leggero lo sguardo era vigile, le labbra brillavano leggermente. Strizzò gli occhi grigio-azzurri e si guardò intorno. Era bella, sexy, specie quando avanzò nella lobby con passo energico e sensuale. Un paio di uomini in attesa alla reception si voltarono a guardarla.
Stavo per farle cenno, invece d’impulso tirai fuori la Leica e le scattai quattro foto.
Posai la Leica sul tavolo e la chiamai. Il suo viso si aprì in un sorriso e mi venne incontro.
Mi resi conto che, dalla morte di Amelia, non avevo più pensato al sesso. Fino a quando Clara non era apparsa nella lobby dell’Hotel Royal.
Improvvisamente mi sentivo eccitato, quasi felice.
«Peter. Mi fa piacere rivederti.»
«Ciao Clara, lo stesso vale per me» risposi.
Mi tese una mano fresca e ferma e accettò il caffè sedendosi di fronte a me. Scambiammo quattro chiacchere sul tempo, Madrid e Copenaghen, i titoli dei quotidiani nella stagione morta e il perché i giapponesi viaggiano sempre in gruppo.
Poi fra noi calò un silenzio imbarazzato. Le versai dell’altro caffè e avvicinai la fiamma dell’accendino alla sigaretta che teneva fra le labbra.
Clara si sporse verso di me e disse:
«Cosa posso fare per te?».
Quella domanda mi sorprese. Mi ero aspettato che prima di offrirmi il suo aiuto chiedesse di vedere cosa le avevo portato. Misi le mani avanti.
«Ci vorrà un po’ di tempo.»
«Nessun problema.»
Le raccontai di San Sebastián, di Don Alfonso, dei sospetti della polizia di Madrid, del referto dell’autopsia e infine del rapporto d’intercettazione, che le mostrai riassumendolo per sommi capi. Lei ascoltò senza fare commenti. Le ero grato per il fatto che non sentisse il bisogno di rinnovare le sue condoglianze. Nell’udire dei tre irlandesi e dell’interrogatorio, tese la mano e mi toccò la ferita quasi rimarginata sotto l’occhio.
«Sembri più vecchio. E segnato. Ti si legge la sofferenza negli occhi» commentò.
«È strano che tu lo dica,» ribattei, «quando ci conosciamo appena.»
«Vero, ma io ho la sensazione di conoscerti bene» disse lei.
«Non capisco.»
«Neanch’io» ammise con un sorriso.
Ci fissammo per un attimo, ma il suo sguardo rimase indecifrabile, perciò passai a raccontarle di Las Ventas.