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Clara guardò Jakobsen, quindi rispose:

«No. Non abbiamo niente sul suo conto».

«Accenda pure il registratore» dissi.

«Grazie, Signor Lime.»

Non fu una cosa lunga. Clara mi invitò a dire come mi chiamavo, dove vivevo, la mia professione. Poi, come preannunciato, mi chiese quando avessi scattato le due foto e se conoscessi l’identità delle persone ritratte. Naturalmente le interessava soprattutto il futuro deputato. Jakobsen intanto prendeva appunti senza staccare lo sguardo da me. Sicuramente non gli piaceva il mio codino, né la mia faccia, né la mia storia, né l’ostinazione con cui avevo preteso che rispondessero alle mie domande.

Quando ebbi risposto a tutte le domande, Jakobsen si alzò e se ne andò salutandomi con un frettoloso cenno del capo. Portò con sé il registratore.

«Che simpaticone!» dissi.

«Puoi passare domani a firmare la trascrizione?» chiese Clara. Notai con sollievo che eravamo tornati a darci del tu.

«Forse» risposi.

«Che vuoi dire?» fece un’espressione preoccupata. «Abbiamo poco tempo.»

«In cambio devi fare una cosa per me» dissi.

«Vengo volentieri a cena con te, te l’ho già detto. Indipendentemente da questa faccenda.» Posò la sua mano sulla mia e mi guardò negli occhi. Ero confuso e a disagio come un adolescente.

«Questo non c’entra» riuscii a dire dopo un istante.

«Allora di che si tratta?»

Confessai che m’interessava verificare se a Berlino esistesse un dossier su di me. Se c’era dovevo vederlo, ma non sapevo come muovermi e speravo che lei mi avrebbe aiutato.

«Non posso fare granché» disse.

«Potresti telefonare ai tuoi colleghi in Germania e procurarmi il permesso.»

«No. Lo farei, se fosse possibile, ma non posso. Dovrai fare domanda personalmente. I vecchi archivi della STASI sono pubblici, anche se la lista di richiedenti in attesa di poterli consultare è lunghissima. Esistono chilometri e chilometri di scaffali zeppi di archiviatori. La STASI aveva duecentottantamila dipendenti e un’infinità di informatori. L’intera DDR era un nido di spie. Tutti facevano rapporto su tutti. Molte persone oggi chiedono di sapere cosa è stato scritto su di loro.»

Clara staccò la mano dalla mia.

«Posso aiutarti a scrivere la lettera. Posso telefonare a un paio di conoscenze e sperare così di accelerare un po’ i tempi. Nient’altro. Ma tu, perché vuoi vedere il tuo dossier?»

«Potrebbe contenere la risposta a un interrogativo che mi tormenta. Forse scoprirò che non è così. Ma se non faccio questo tentativo, non riuscirò più a togliermi questo dubbio dalla testa» dissi.

Lei strappò un foglio dal suo taccuino e mi sorrise.

«Sai il tedesco?»

«Me la cavo.»

«Okay. Il posto si chiama: Bundesbeauftragter für die Unterlagen des Staatssicherheitsdienstes der ehemaligen Deutschen Demokratischen Republik» intanto scriveva. «Ha sede nel vecchio quartier generale della STASI, in Normannenstrasse. La STASI disponeva di un enorme complesso di uffici che occupava diversi isolati. Al crollo del Muro, quelli della STASI provarono a distruggere e a bruciare quanto più materiale possibile. Ciò nonostante, ci sono milioni di documenti accessibili al pubblico. Ma è questo il punto: sono a disposizione di chicchessia, e le persone schedate hanno la precedenza. Capisci? Non posso fare in modo che tu passi davanti a tutti, anche se faccio parte dei servizi segreti di un paese amico. Questo è l’aspetto democratico e disperante della faccenda.»

Annuii.

«Correntemente l’ufficio in questione è noto come: autorità-Gauck. L’idea dell’accesso libero, infatti, fu sostenuta da Joachim Gauck, un sacerdote della DDR. Devi scrivere a loro. Nella lettera dirai che ritieni di essere stato schedato. L’ufficio controllerà, e in caso affermativo, riceverai una lettera con indicata la data in cui potrai prendere visione del tuo dossier. Prima di mostrartelo, naturalmente, lo ripuliranno, per tutelare la privacy di eventuali terzi innocenti che vi compaiano.

È un’opportunità che non ha precedenti nella storia. Né i paesi democratici né quelli socialisti hanno mai accordato così ampio accesso ai loro archivi. Per un verso mi fa piacere. Per un altro mi spaventa.»

«Hai scritto l’indirizzo e l’intestazione esatti?»

«Posso scrivertele io le lettere, Peter. Tu ti limiterai a firmarle. Se vuoi.»

«Perché no?» Accettai.

«Non sempre la gente esce serena e soddisfatta dall’esperienza che tu chiedi di fare.»

«Cosa intendi?»

«La verità non è sempre indispensabile. Mentire è sbagliato. Ma la verità, tutta la verità può fare molto male. È un po’ come per le cartelle cliniche. È sempre preferibile sapere tutto? Io credo di no.»

Un’ombra le attraversò il viso. Era una donna strana. Avevo l’impressione che dietro la facciata disinvolta ed energica nascondesse un dolore, una delusione o una perdita di qualche tipo.

«Ma nel mio caso, credi anche tu che cercare delle risposte sia una buona idea, non è vero?» le chiesi.

«Sta a te decidere. Ma potrebbe essere interessante.»

«E se dovessi trovare qualcosa di utile per la tua relazione, vorresti essere informata?»

«La nostra relazione deve essere consegnata fra un paio di giorni, mentre l’attesa di una risposta da parte dell’autorità-Gauck può essere di diversi mesi.»

«Però…»

«Va bene, lo ammetto» disse.

«Ma adesso pensiamo alla cena. A che ora e dove, Peter?» domandò dopo un momento.

17

Uscii a comprare un abito estivo, una camicia nuova, una cravatta e un paio di scarpe. Tornai in albergo, mi preparai, poi chiesi alla reception di procurarmi una macchina con cui andai a prendere Clara al suo indirizzo di Vesterbrogade. Indossava un vestito estivo chiaro e si era truccata gli occhi e la bocca, annuì divertita quando cerimoniosamente la aiutai a salire in macchina e chiusi la sua portiera prima di tornare al volante e avviare il motore. Al collo portava una semplice catenina con un monile d’oro a forma di serpente.

«Sei elegantissimo» disse.

«E tu sei uno schianto.»

Non conoscevo ristoranti speciali a Copenaghen e all’inizio avevo pensato al Tivoli, ma poi, su suggerimento dell’albergo, avevo optato per Regattapavillonen. La scelta si rivelò ottima. L’albergo aveva prenotato per noi un tavolo d’angolo con vista sul lago. Prima di sederci, su proposta del cameriere, prendemmo un aperitivo sul terrazzo. Il vento era calato e il Lago di Bagsværd si stendeva scintillante come un antico vassoio d’argento. Lungo le sue sponde la gente passeggiava, a coppie o in compagnia dei cani, oppure faceva picnic.

Probabilmente il Royal aveva indirizzato lì anche altri ospiti, perché tra gli avventori del ristorante molti erano rispettabili signori in abito scuro intenti a parlare d’affari in inglese. Clara e io raggiungemmo il nostro tavolo appartato e continuammo la conversazione iniziata sul terrazzo. Era decollata a stento e in maniera un po’ goffa, come se di colpo non avessimo nulla da dirci. Ma poi la prospettiva del silenzio aveva cessato di sembrarmi una minaccia e mi ero rilassato. Alla nostra età, sforzarci di dissimulare l’imbarazzo blaterando a ruota libera sarebbe stato sciocco.

Nel fare le ordinazioni chiacchierammo di vini, poi inventammo una storia sugli uomini d’affari vestiti di scuro.

«Forse quello alto è una delle spie a cui davi la caccia un tempo, all’epoca della guerra fredda» dissi.

«Un tempo?» ribatté lei. «Credi forse che dal crollo del Muro sia rimasta a girarmi i pollici? Al contrario! Russi, curdi del PKK… in questo paese non mancano certo le possibili fonti di pericolo per la sicurezza dello stato.»

«Non l’ho detto per farti parlare del tuo lavoro. Non mi interessano particolarmente gli uomini con la barba e gli occhiali dalle lenti riflettenti.»