Mi voltai incamminandomi verso le ville.
«Peter, accidenti» disse. «Peter! Resta qui. Peter.»
Accelerai il passo, quindi mi misi a correre. Il sangue mi ronzava nelle orecchie, allontanando il suono della voce di Clara che mi chiamava. Nel punto in cui il sentiero curvava verso le ville, mi voltai. Lei mi guardava, la parte inferiore del corpo avvolta nell’asciugamano azzurro, ritta sullo sfondo di un mare lucido come ghiaccio.
Ripresi a correre, fermandomi solo quando sentii che i polmoni erano sul punto di esplodere. Affannato, mi sedetti su una zolla erbosa.
Non sapevo in che direzione avevo corso, ma la lingua di terra in quel punto era stretta, e girando la testa scorsi il Kattegat che spuntava tra un paio di alte betulle. Rimasi seduto per un po’ con la testa fra le mani. La mia T-shirt era fradicia di sudore. Quando ripresi il controllo della respirazione, mi accesi una sigaretta e mi avviai lentamente verso il Kattegat. Sulla via della spiaggia avevamo superato un droghiere. Lì avrei potuto chiamare un taxi e trovare qualcosa da bere.
Così feci. Comprai una bottiglia piccola di vodka e una Coca da mezzo litro, e mentre aspettavo il taxi di fronte al negozio, bevvi la vodka liscia sciacquandola con la Coca finché la bottiglia di plastica della bibita fu mezza vuota. Poi ci versai la vodka. Avevo voglia di piangere, invece continuai a bere.
Il tassista era un giovanotto con la barba bionda lunga di qualche giorno.
«Devo andare a Copenaghen» gli dissi prendendo posto sul sedile posteriore.
«È lontana» ribatté quello con uno sguardo perplesso ai miei capelli arruffati, i jeans e la T-shirt sudata.
«Non che non mi fidi, ma sei sicuro di avere abbastanza denaro?»
«Sto all’Hotel Royal di Copenaghen» dissi aprendo il portafogli per mostrargli le mie carte di credito.
«D’accordo, monta» rispose. «Hai perso il traghetto?» continuò nel tono spiccio e diretto con cui un certo tipo di danese si rivolge a chiunque incontri, siano essi amici o sconosciuti.
«Stanimi a sentire» dissi. «Ti prometto cento corone di mancia, ma a una condizione.»
Lui si voltò a guardarmi, un’espressione interrogativa negli occhi azzurro pallido.
«Che tu non dica una sola parola finché non saremo al Royal. Nemmeno una» dissi.
«Non so esattamente dove si trova il Royal. È l’albergo della SAS? Quello vicino alla Rådhusplads?»
«Sì, proprio quello. Staremo in silenzio finché arriveremo in città, poi ti darò le indicazioni. Una sola parola, e addio mancia.»
«Per me va bene» disse lui e avviò la grossa Mercedes.
Mantenne la promessa. Quando accostò davanti al Royal avevo finito la vodka. Gli diedi le cento corone in contanti oltre alla corsa che pagai con la carta di credito, e lui si apprestò a tornarsene tutto soddisfatto a Odsherred.
Entrai nella lobby e andai a ritirare la chiave. Quando mi voltai mi trovai di fronte Oscar.
«Ah, eccoti qui. Accidenti, è tutto il giorno che ti aspetto» disse avvolgendomi nelle sue lunghe braccia.
«Ciao, Oscar. Che ci fai qui? C’è anche Gloria con te?» chiesi stupito.
«È su in camera. Come stai?»
«Da schifo» risposi.
«Si vede. Ci dai dentro con l’alcol, eh, Lime? Ma sta’ tranquillo. Adesso è arrivato il settimo cavalleria. Ti salveremo dai pellerossa, vedrai.»
«Voglio un drink» dissi.
«Va’ al bar, intanto io chiamo Gloria.»
«Dille che non ho voglia di prediche, non oggi».
«Agli ordini, amico mio» disse Oscar.
Gloria ci raggiunse immediatamente. Mi baciò tre volte secondo l’uso spagnolo, mi abbracciò, poi si scostò tendendo le mani sulle mie spalle per esaminarmi meglio. Scosse la testa, ma saggiamente si astenne dal fare commenti. Con un’occhiata eloquente al mio whisky e a quello di Oscar, ordinò un bicchiere di vino bianco. Aveva un’aria rilassata e molto spagnola nel vaporoso e sgargiante vestito che contrastava con il nero dei capelli. La vacanza l’aveva ringiovanita. Anche Oscar aveva un’aria fresca e riposata. Evidentemente i due stavano attraversando uno dei loro periodi di rinnovata passione, perché non potevano fare a meno di toccarsi in continuazione. Oscar guardava la moglie con un’espressione che comunicava desiderio misto alla gioia del possesso, come a dire: guardate la mia donna, non è bellissima? Hei, ricordatevi sempre che è mia.
Mi faceva davvero piacere rivederli, e li misi a parte di quanto era accaduto dall’ultima volta che ci eravamo visti. Mi ascoltarono con attenzione e partecipazione, e quando giunsi alla catastrofica gita al mare, Gloria mi accarezzò la guancia.
«Povero Pedro» disse.
La sua non era commiserazione, ma empatia. Credevo di essere riuscito a incapsulare e superare il dolore per la morte di Amelia di Maria Luisa: mi ero sbagliato.
Gloria si accese una sigaretta, Oscar ordinò un altro giro. Accusavo l’effetto dell’alcol, ma ero lontano dall’essere ubriaco.
«So che non è nel tuo stile, Peter» disse Gloria. «Ma non pensi che forse dovresti farti aiutare da un professionista?»
Non sapevo cosa rispondere e Gloria continuò:
«A Madrid conosco un bravo psicologo in grado di aiutarti a sciogliere un po’ del tuo tormento. Di solito non parli volentieri di te stesso e dei tuoi sentimenti, ma forse proprio per questo un professionista è quello che ci vuole. Non voglio vederti andare a fondo. Non voglio vederti andare in pezzi».
«Si era detto niente prediche, Gloria» la ammonii.
«Non la farai franca» ribatté lei. «Siamo tuoi amici, e gli amici servono anche a dire quello che gli altri non osano.»
Oscar intervenne:
«Le conosci, le donne d’oggi, Peter. Credono nella potenza della comunicazione come le loro mamme credevano nella Madonna. Sono convinte che tutti i problemi del mondo si possano risolvere parlando, parlando sinceramente».
«E piantala, Oscar» disse Gloria. «Peter ha bisogno di parlare. Tu e io dimentichiamo quello che ha passato.»
«Credevo di provare qualcosa per Clara, che con il tempo avrei potuto… che ci sarei riuscito» dissi. «Era come se all’improvviso intravedessi una luce, non so se mi capite.»
«Sì. E non è detta l’ultima parola. Chissà che non vada tutto a finire bene, con questa Clara» disse Gloria sorridendo.
Oscar si fece serio.
«C’è un altro modo di vedere questa vicenda» disse. «Forse quella donna è parte di un piano.»
«Che vuoi dire? Non essere ridicolo.»
«Clara Hoffmann, bella agente dei servizi segreti danesi, viene a Madrid, ti cerca, ti mostra una foto, e da quel giorno la tua vita diventa un cumulo di macerie. Cosa vuole da te, esattamente? Davvero quella vecchia foto è tanto importante? Per chi? Perché? Dovresti domandarti che cosa stia succedendo in Danimarca, che cosa Lime e la sua foto possano significare con la polizia.»
Di colpo ebbi un’ispirazione.
Chiesi a Oscar di prestarmi il cellulare, mi allontanai e feci il numero di Klaus Pedersen al telegiornale. Dovetti insistere perché un assistente accettasse di passarmelo in sala di montaggio. Dal tono frettoloso sembrava stressato. Mi salutò, poi lo sentii dare istruzioni a un tecnico a proposito della sequenza di un servizio.
«Ho una fretta terribile, Peter. Non possiamo parlare in un altro momento?» disse.
«Cosa stai facendo?»
«Scadenze. Stress. Remember?»
«Il tuo servizio tanto urgente parla forse dei servizi segreti?» domandai.
«Come fai a saperlo?» si stupì.
«Di cosa si tratta?» domandai a mia volta.
«In poche parole, il governo ha chiesto ai Servizi di presentare una relazione pubblica che sveli quali partiti politici legali, sindacati eccetera, sono stati fatti oggetto di infiltrazioni, intercettazioni e pedinamenti negli ultimi trent’anni. Per la prima volta abbiamo la possibilità di scoprire il loro gioco, di farci un’idea di come lavorano, quante e quali risorse impiegano e come. La relazione, però, non dice praticamente niente di nuovo. La sinistra è inferocita e pretende un’inchiesta super partes. Sostiene che chiedere alla polizia di indagare su se stessa è un esempio clamoroso dell’ipocrisia delle istituzioni. I conservatori invece sono soddisfatti, e il ministro della giustizia ha opposto il proprio veto, dichiarando che l’inchiesta prospettata dalla sinistra comporterebbe troppi rischi in termini della sicurezza del paese. È una storia grossa. E tu, perché me lo chiedi?»