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Attraverso qualche sua conoscenza, Gloria mi procurò un appartamentino ammobiliato nel mio vecchio quartiere. Lì mi rifugiai per starmene per lo più per conto mio; mi sentivo vuoto e scuro dentro come se qualcuno avesse spento la luce della mia anima.

Frequentavo la scuola di karate e andavo agli incontri degli Alcolisti Anonimi. Di solito riuscivo a evitare di bere, ma ogni tanto ci ricascavo, mi ubriacavo come un disperato, dormivo, e al risveglio non ricordavo le circostanze della sbornia. Ero nel mio letto e non avevo la più pallida idea di come ci fossi arrivato.

Pensavo spesso a Clara, e dopo il terzo drink o la quarta lattina di birra, mi ero trovato più di una volta con la cornetta del telefono in mano, travolto da un improvviso desiderio di chiamarla.

Ma me ne mancava il coraggio e, se insistevo con l’alcol, presto mi dimenticavo di lei e infine anche di me stesso.

Quell’anno l’autunno era arrivato presto. Un vento gelido proveniente dalle montagne spazzava la pianura castigliana inseguendo i passanti in ogni angolo della città. Un giorno arrivò perfino la neve e il traffico andò in tilt, poi il tempo cambiò facendosi nuovamente mite e piacevole, fino a quando sulla città non si abbatté una nuova ondata di freddo accompagnata da violenti acquazzoni. La pioggia scrosciava sui tavolini dei caffè deserti, e Felipe ciondolava sulla porta della Cervecería Alemana tormentando lo strofinaccio con le mani, le spalle rivolte al locale semideserto. I madrileni, fatto raro, si rifiutavano di uscire, preferendo starsene in casa incollati al televisore.

Ai primi di novembre, il giorno della nevicata, Don Alfonso morì. Ignoravo come avesse trascorso gli ultimi istanti della sua vita. Se fosse stato preda di un dolore lancinante o dell’angoscia, quando il suo cuore aveva cessato di battere nella serra, dove stava facendo i preparativi per l’inverno. Se avesse avuto tempo di prepararsi all’incontro con quel Dio, nel quale, malgrado tutto, continuava a credere. Un vicino lo trovò accanto alla panca con una piccola pala da giardinaggio in mano, nella serra linda e ordinata come al solito. La neve caduta sul tetto colorava la luce in morbidi toni azzurrati…

Lo seppellii accanto ad Amelia e Maria Luisa. Adesso mi recavo spesso in quel cimitero disseminato di croci bianche, colombe marmoree irrigidite e fredde lapidi. A volte mi portavo un libro e mi sedevo all’ombra a leggere. Altre volte prendevo con me una bottiglia. Intrattenevo lunghe conversazioni con Amelia, che insisteva nel dire che era ora che mi rifacessi una vita. Voleva essere una parte di me, le provviste per il viaggio, non la mia palla al piede.

Don Alfonso mi aveva nominato suo erede universale. Possedeva una piccola fortuna in titoli, ma il suo regalo più bello fu la casa. Incaricai Gloria di vendere San Sebastián e mi trasferii nella mia nuova casa. Con l’arrivo della primavera, avrei fatto costruire un piccolo studio con annessa camera oscura, per riprendere la mia attività di ritrattista. Ma mi piaceva anche immaginarmi armato di treppiede in mezzo alla solitaria campagna spagnola, in attesa di un toro che sarebbe apparso alla sommità della collina per dirigersi pigramente verso di me. Non sarebbe stato aggressivo, perché presto dietro di lui sarebbe apparso il resto del gregge, e, si sa, in gruppo i tori diventano tranquilli e quasi docili. Avrebbe alzato la testa, e la luce sarebbe piovuta con un effetto particolarissimo sulle sue corna, filtrata dalle fronde di un ulivo. Sarei rimasto lì per sempre, in attesa di scattare una impossibile foto perfetta.

Ma a metà novembre telefonò Clara Hoffmann. Era sera, e la pioggia, che aveva cominciato a cadere nel primo pomeriggio, scrosciava ancora contro il tetto e le finestre. Ero sobrio, stavo leggendo uno dei libri di Don Alfonso sulla guerra civile. Avevo acceso il fuoco nel camino e mi sentivo equilibrato e quasi in pace.

Nel sentire la sua bella voce rimasi un attimo come confuso, poi il cuore prese a martellarmi furiosamente in petto.

«Sono Clara. Clara Hoffmann, da Copenaghen» disse.

«Sì.»

«Peter, sei tu?»

«Sì. Scusami. Ero immerso in un libro.»

«Scusami tu, se ti disturbo. Ho avuto il tuo numero dall’ufficio. Qualche giorno fa, veramente. Non ti dispiacerà, spero.»

«No. No. Come stai?»

«Bene, grazie. E tu?»

«Abbastanza. Sì, insomma, non c’è male.»

Ci fu una pausa, poi lei disse:

«Ho pensato spesso di telefonarti».

«Anch’io. A te, cioè. E perché non lo hai fatto?» le domandai.

«Non lo so. Avevo paura di sentirmi respinta. E tu, perché non lo hai fatto?»

La sua voce mi giungeva chiara nonostante il lieve sibilo che disturbava la linea, evocando l’immagine del suo sorriso e del suo corpo nudo sulla spiaggia della baia di Sejrø. Le emozioni contrastanti di quel giorno cominciarono a mulinarmi nel cervello.

«Avevo paura anch’io. E mi vergognavo» aggiunsi sorpreso dal mio stesso candore.

Lei rise dolcemente.

«Proprio tu!»

«Non sono il vecchio cinico che a volte mi piace interpretare.»

«Lo so. Sei molto umano, invece. È questo che mi piace di te» disse.

«Ancora adesso? Sì, insomma, dopo quello che è successo.»

«Mi sei mancato.»

«Anche tu a me» ammisi, per la prima volta anche a me stesso.

«E pensare che siamo due persone adulte» disse.

«Appunto» dissi io.

Ci fu una pausa.

«Come sei riuscita a trovare il coraggio?» le chiesi infine.

«Ho saputo una cosa che penso ti interesserà, così ho colto l’occasione…»

Spiegò di aver ricevuto una lettera dalle autorità tedesche: la informavano che ero autorizzato a presentarmi a Normannenstrasse per prendere visione del mio dossier STASI. Ci sarei andato? Volevo ancora vedere il mio dossier?

Da diverse settimane consideravo chiusa quella faccenda. Provavo ancora dolore per la mia perdita, naturalmente, ma il bisogno di vendetta nei confronti dei responsabili dell’esplosione mi aveva abbandonato. Ormai davo ragione a Oscar e Gloria: rivangare il passato avrebbe causato solo altra sofferenza. Lo dissi a Clara al telefono. Replicò con un debole «okay», ma sentivo che era delusa.

Allora mi sentii di dire:

«Sono disposto ad andare a Berlino, a patto che tu mi raggiunga lì. Altrimenti non parto».

«Quando?»

«Che ne dici di domani?»

La sua risata mi riempì di gioia e di sollievo.

«Dopodomani?» rilanciò.

«Dopodomani va benissimo.»

«Siamo d’accordo. Telefonami quando hai tutti i dati del volo. Probabilmente io verrò in macchina.»

«Senz’altro. E, Clara…»

«Sì, Peter?»

«Non vedo l’ora di rivederti.»

«Anch’io, Peter Lime. Anch’io.»

«Mi dispiace di averti messo nei pasticci raccontando la storia della relazione riservata al telegiornale.»

«È acqua passata. Sono una ragazza forte.»

«Lo so. Ma il mio senso di colpa rimane.»

«Ti racconterò tutto a Berlino» disse e riagganciò.

A Berlino la pioggia, più fredda che a Madrid, a tratti si trasformava in nevischio. Ero stato a Berlino solo un paio di volte dopo il crollo del Muro, e avevo l’impressione che da allora la sua marcia verso una nuova grandezza procedesse inarrestabile. Sui giornali avevo letto della crisi economica del paese e del muro invisibile che ancora divideva Est e Ovest. Se quel muro esisteva davvero, la città e i suoi abitanti non sembravano darsene pensiero. Immense gru lavoravano fra i palazzi del centro, nuovissime costruzioni di vetro e cemento armato parevano essere spuntate un po’ ovunque. Le strade traboccavano di automobili che lentamente procedevano nella pioggia catturata dai fasci di luce dei fari. Di tanto in tanto, fra le grosse Mercedes e BMW, spuntava una piccola Trabant, unica testimonianza tangibile del recente passato, quando la città era ancora divisa in due. Nonostante il freddo e la pioggia, i marciapiedi e le piazze erano gremiti di persone, che con i baveri alzati e gli ombrelli di sghembo avanzavano imperterrite nella precoce oscurità del pomeriggio.