La mia agenzia viaggi mi aveva trovato un piccolo ma lussuoso albergo vicino al Kurfürstendamm, prenotando una camera per Clara accanto alla mia. Il giorno prima l’avevo chiamata in ufficio per darle un appuntamento, ma al suo vecchio numero aveva risposto un’altra persona: mi aveva detto che Clara Hoffmann non lavorava più lì. Dopo qualche altra telefonata avevo scoperto che era passata alla Squadra antitruffa della polizia di Copenaghen, ed ero riuscito a lasciare un messaggio per lei a una segretaria.
La prospettiva del nostro incontro mi spaventava. Per allontanare i miei timori e ammazzare il tempo feci cinquanta flessioni, poi una doccia. Quindi scesi al bar e, già tormentato dal senso di colpa, scolai due whisky. Tornai in camera. Era una bella matrimoniale spaziosa con un grosso letto sormontato da uno specchio dalla cornice dorata. Il rumore frusciante delle auto sull’asfalto bagnato era l’unico suono che dalla strada filtrasse nella camera ben riscaldata. Una porta divideva la mia stanza da quella destinata a Clara. Era chiusa a chiave. Provai ad accendere la televisione, ma non riuscivo a concentrarmi, allora scesi di nuovo al bar, dove ordinai una Coca e raccolsi una copia dell’«Herald Tribune». Tornato in camera mi tuffai nella lettura. Ero arrivato all’ultima pagina quando sentii dei rumori nella stanza accanto. Una porta sbatté, e immaginai Clara che si scrollava la pioggia dal cappotto e dai capelli. Mi alzai per uscire in corridoio a bussare alla sua porta, ma poi ci ripensai e mi rimisi seduto con il giornale sulle ginocchia. Le lettere danzavano prive di senso davanti ai miei occhi. Non ero a Berlino solo per vedere il dossier della STASI. Ero lì anche, o soprattutto, per verificare la mia capacità di amare qualcuno che non fosse Amelia. Ma ignoravo quali fossero i pensieri e le aspettative di Clara Hoffmann, e questo fatto mi comunicava un’ansia intollerabile.
Sentii l’acqua della doccia che scorreva nella stanza di Clara. Avevo fatto bene a non bussare. Evidentemente aveva deciso di darsi una rinfrescata dopo il viaggio. Venti minuti dopo udii il rumore della chiave che girava nella toppa della porta che separava le stanze. Clara rimase nel vano a guardarmi per qualche secondo. Indossava l’accappatoio bianco dell’albergo. Senza dire una parola entrò nella stanza sorridendo, si chiuse la porta alle spalle e si voltò. Mi alzai.
Avanzò di un passo, e io mi mossi per andarle incontro.
«Clara…»
In tre rapidi passi mi raggiunse e mi zittì appoggiandomi il palmo della mano sulla bocca come fossi un bambino. Ci abbracciammo. Aprii l’accappatoio per stringere il suo corpo nudo al mio. I capezzoli eretti sfregavano contro la mia T-shirt mentre la accarezzavo avidamente, dappertutto, senza fiato per l’eccitazione. I suoi occhi erano aperti e lucidi, come se avesse paura o fosse sul punto di piangere.
«Clara» provai a dire. Ma lei scosse il capo.
«Non parlare, Peter.»
20
Dopo aver fatto l’amore con Clara scoppiai a piangere. Non mi ero mai considerato un tipo fragile, emotivo, e negli anni Settanta avevo provato grande irritazione per la moda dell’autocoscienza, specialmente quando a praticarla erano gli uomini. Non sopportavo le confessioni, le ipocrisie, le cazzate e le lacrime che la gente tirava fuori in quelle grottesche riunioni.
Ma in quel letto d’albergo di Berlino, non riuscii a trattenere un singhiozzo, seguito da un altro e poi da tante, troppe lacrime, finché Clara accostò la mia testa al suo seno e prese ad accarezzarmi i capelli, piano. Piansi per le ingiustizie della vita, per le occasioni sprecate, per il fatto che non avrei mai superato lo spaventoso dolore per la perdita della mia famiglia. Ma anche perché l’abbraccio di Clara era stato intenso e liberatorio. Lei abbassò il viso sul mio e cominciò a baciarmi. Con la lingua cancellò le tracce del mio pianto dalle palpebre, dalle guance, dal collo e dal petto.
Non ci eravamo scambiati nemmeno una parola. Parlammo solo dopo esserci accarezzati, baciati e amati ancora. E anche allora non parlammo di noi, ma del passato. Le raccontai di Amelia e Maria Luisa, della mia infanzia, del lavoro, confessai perfino il mio problema con l’alcol.
Lei ascoltò e fece domande, ma di sé non volle dire molto. A parte il trauma dell’abbandono di Niels, la sua era stata una vita serena e quindi, sosteneva, poco interessante.
Saremmo andati avanti a chiacchierare ancora a lungo, se non ci fosse venuta fame.
Una fame rabbiosa di carne e montagne di patate. Era mezzanotte passata, e l’addetto al servizio in camera disse che potevano servire solamente zuppa di verdure, panini e omelette. Ordinai tutto quanto insieme a una bottiglia di vino e dell’acqua minerale.
Clara, nuda, si alzò, andò nella sua stanza e riapparve con dei vestiti sul braccio e una piccola valigia.
«Possiamo disdire l’altra stanza» propose. «Se sei d’accordo.»
«Perché lo hai fatto? Venire a Berlino, intendo.»
«Ho avuto voglia di te da subito, dal primo giorno in cui ti ho visto. Ma allora era diverso, tu eri sposato… scusami. Non dovrei parlarne.»
«Non ti preoccupare, Clara.»
«Non ci sono stati molti uomini nella mia vita, Peter. Ogni tanto mi veniva voglia di qualcuno, ma dopo il divorzio non mi sembrava che il gioco valesse la candela.»
«Sono contento che tu abbia preso l’iniziativa. Non so se io avrei trovato il coraggio.»
«Io penso di sì. Comunque ricordavo il tuo sguardo, l’estate scorsa. Era chiaro che mi desideravi. E quando mi sono ritrovata nella camera accanto alla tua ho pensato “sono entrata nella seconda metà della mia vita, ho già visto morire degli amici. Non c’è motivo di sprecare tempo”. È stato facile…»
Mi alzai, la raggiunsi e la baciai dolcemente.
«Sono contento» ripetei.
Lei si liberò dal mio abbraccio e indicò la porta del bagno:
«Non pensi che dovremmo renderci un po’ più presentabili prima che arrivi il cameriere con la nostra cena?».
Mangiammo come se non avessimo toccato cibo da giorni.
«Non mi hai ancora detto perché hai cambiato lavoro» le chiesi più tardi, accendendomi una sigaretta.
«Quando in Danimarca esplode uno scandalo, qualcuno deve restare con la patata bollente in mano. Altrimenti le acque non si calmano più. Questa volta la patata bollente è toccata a me.»
«Per causa mia?»
«Temo di sì.»
«Mi dispiace terribilmente.»
«Ah, non pensarci. Dammi una sigaretta, anche se ho smesso di fumare» continuò. «Avevo bisogno di allontanarmi dai servizi segreti. Invece di mettermi alla porta, mi sottrassero responsabilità finché non mi decisi a fare il salto.»
Fumava nervosamente.
«Ero disperato, Clara» cercai di giustificarmi. «Arrabbiato, avvilito, offeso e ubriaco. Perdonami.»
«Ti ho già detto che è stato meglio così. Mi sono ritrovata con la patata bollente in mano, ma probabilmente mi avrebbero fatto fuori lo stesso. Lime o non Lime.»
«Che vuoi dire?»
«Dalla fine della guerra fredda, il personale dei servizi segreti in Danimarca non è diminuito, anzi è andato aumentando. Con le recenti rivelazioni tutti, politici, stampa, gente comune hanno cominciato a chiedersi che senso abbia. C’è odore di tagli nell’aria…»
«Sembri amareggiata.»
«Perché lo sono, Peter. Per più di una ragione. Il mio attuale lavoro non mi piace, e non vedo prospettive di miglioramento all’orizzonte. Il mio matrimonio è finito, non ho figli e vivo sola. Ho un grande appartamento ben arredato e a volte parlo alle mie piante. Forse dovrei procurarmi un gatto. Sono sola, e questo mi fa paura.»