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La baciai e le strinsi teneramente la testa fra le mani.

«Fai l’amore con me» disse.

La mattina successiva mi svegliai presto, dal rumore del traffico capii che doveva aver smesso di piovere. Restai a lungo a contemplare Clara che dormiva accanto a me, con un misto di incredulità, tristezza e gioia. Quando uscii dal bagno la trovai seduta nel letto.

«Sei mattiniero» disse guardandomi dritto negli occhi, senza timidezza.

«Torna pure a dormire» le dissi.

«No. No» rispose. «Tu scendi a fare colazione. Hai un appuntamento con il tuo passato, ricordi? Alle dieci nel vecchio complesso in Normannenstrasse.»

Dopo colazione prendemmo un taxi per varcare l’ormai invisibile frontiera ed entrare nella vecchia Berlino Est. Ripensai a quando avevo appreso del crollo del Muro, a New York, da un notiziario della CNN, ed ero salito sul primo volo disponibile per l’Europa. Volevo essere presente a quell’evento epocale. Arrivato a Berlino ero stato travolto dall’euforia. Avevo scattato diverse serie di foto, ma non le avevo vendute. Erano belle, ma tutte uguali, e non si distinguevano da quelle dei miei concorrenti. Ero rientrato a Madrid carico di adrenalina, convinto che il mondo sarebbe cambiato in maniera radicale. Anche Gloria era esaltata e incredula: camminava avanti e indietro per l’ufficio, rideva, alzava il volume del televisore. Oscar, invece, era ubriaco, cupo e scontroso; ripeteva che presto la festa sarebbe finita e che i tedeschi orientali si sarebbero pentiti di essersi buttati così allegramente fra le braccia del capitale e della Germania Occidentale. Anche l’anno successivo, in occasione dell’annuncio dell’unificazione delle due Germanie, Oscar si era ubriacato. Aveva accusato Gloria, che voleva festeggiare, di aver tradito gli ideali della loro giovinezza, lei aveva ribattuto che Oscar si aggrappava a un sogno spezzato per sempre. Avevano litigato così violentemente che ero stato costretto a trascinare Oscar a letto.

«Sai qual è l’aspetto strano dei sistemi totalitari?» disse Clara interrompendo i miei pensieri. «Sia che si trattasse di nazisti che di comunisti, erano talmente convinti di essere infallibili e di avere la storia dalla propria parte, che documentavano tutto, mettevano tutto per iscritto. Anche perché erano paranoici. Soffrivano di uno strano miscuglio di mania di grandezza e complesso d’inferiorità. E poi, dal momento che i criteri della purga successiva erano imprevedibili, dal loro punto di vista era meglio mettere le mani avanti e scrivere tutto. I regimi più spietati della storia hanno avuto gli impiegati e i burocrati più coscienziosi.»

Si girò a guardarmi, e la baciai sulle labbra morbide, pensando che ero felice.

Il tassista si fermò in Rischerstrasse, ai margini del grande complesso e aspettò mentre Clara mi dava istruzioni. In realtà quella sembrava una strada qualsiasi di un qualsiasi quartiere di Berlino Est: grandi cartelli pubblicitari della Sony e di Ritter Sport, un supermercato, e pedoni che passavano di fretta senza curarsi più di tanto di quegli edifici lugubri.

«Devi parlare con un certo Herr Weber» disse Clara.

«Tu non vieni?»

«No. Farò una passeggiata. Oppure tornerò in albergo a leggere un po’. Com’è il tuo tedesco?»

«Me la cavo» risposi. «Dai, accompagnami.»

Mi mise una mano sul collo e mi diede un bacio frettoloso:

«Sei tu che hai l’autorizzazione. Il dossier è tuo. Prenditi tutto il tempo che ti occorre. E adesso, fuori!».

Scesi e seguii con lo sguardo il taxi che si allontanava. Senza voltarsi, Clara si limitò ad alzare la mano a mo’ di saluto.

Entrai nella Haus numero 7, e a una piccola reception chiesi di Herr Weber. Il pavimento e l’illuminazione sembravano rifatti, ma c’era ancora l’odore del vecchio regime.

L’ex sede della STASI adesso ospitava diversi uffici dell’amministrazione occidentale. Ma sapevo che un settore del grande complesso era stato trasformato in un museo. Lì, tra bandiere rosse, busti di Lenin e medaglie, si poteva visitare l’ufficio di Mielke, con i numerosi telefoni — tratto distintivo dei regimi comunisti — schierati sulla scrivania scintillante. C’erano telefoni per colloqui riservati, telefoni per colloqui segreti, telefoni per colloqui di massima segretezza. Linee dirette con l’esercito, il Politbjuro, e il KGB. Mentre aspettavo immaginai i lunghi corridoi, le stanze silenziose e polverose, le montagne di documenti: centottanta chilometri di scaffali straripanti di foto, rapporti, trascrizioni di intercettazioni. Nella DDR un cittadino su tre era schedato. Uno su tre era un informatore. I delatori si denunciavano a vicenda, all’infinito. Coniugi, amici, fratelli, sorelle, genitori, colleghi di lavoro: chiunque poteva tradire chiunque altro. Gli archivi della STASI erano un impressionante monumento alla follia dell’uomo; miliardi di parole che potevano significare il carcere o la libertà, parole catturate e trascritte da persone e perciò inaffidabili e soggettive, ma decisive per le vite di altri.

Herr Weber era un uomo piccolo e tarchiato. Sorrise cordialmente quando dissi il mio nome, e vidi che i suoi occhi grigi erano simpatici e pieni di vita.

«Ah, lei è Herr Leica» mi salutò.

«Leica?» dissi io.

«Sì, Signor Lime. Questo è il suo nome in codice negli archivi della STASI. Qui dentro lei si chiama Herr Leica, e sotto questo nome ho esaminato il suo caso. Le dirò che mi sembra quasi di conoscerla, dopo aver letto tutte quelle meticolose relazioni sul suo conto.»

«Lei ha studiato personalmente il mio caso?»

«Si sieda un momento, le comunicherò le regole e le disposizioni vigenti prima di accompagnarla nella sala di lettura.»

Prendemmo posto su due scomode poltrone accanto a un tavolino. Sul tavolo c’era un posacenere: potevo fumare. Mi disse ciò che sicuramente aveva ripetuto centinaia se non migliaia di volte in vita sua, ma il tono della spiegazione era vivace, come se il compito di gestire e trasmettere le annotazioni segrete di una nazione morta fosse troppo importante per rischiare di venirgli a noia.

Herr Weber disse nel suo tedesco lento e chiaro:

«Herr Lime. Noi operiamo ai sensi di una legge che impone certe direttive. Una legge speciale che fu approvata dagli organi competenti della Germania riunita nel 1991. Questa legge regolamenta l’accesso agli archivi. La sua domanda di visionare gli atti è stata evasa e approvata. I suoi documenti sono stati prodotti. Ho letto la sua pratica e, come da regolamento, ho cancellato quei nomi che non la riguardano specificamente. Per evitare di offendere vittime innocenti della STASI. Questi archivi racchiudono grandi tragedie. Ho visto con i miei stessi occhi uomini e donne crollare di fronte al genere di rivelazioni che forse la aspettano. Non è facile scoprire a distanza di anni che colei che credevamo una moglie leale poteva andare a passeggio con la famiglia la domenica e il lunedì fare rapporto al suo ufficiale superiore. Naturalmente potrà vedere tutto ciò che riguarda il suo caso. Può richiedere le fotocopie, ma gli originali restano qui. Mi sono spiegato?».

«Perfettamente» risposi. In realtà tutta quella storia mi sembrava sempre più assurda, e, in un certo senso, molto tedesca. Prima la STASI aveva meticolosamente raccolto e catalogato le informazioni più intime e personali riguardanti milioni di persone, e adesso altri burocrati si davano da fare per catalogare daccapo quella montagna di materiale, attribuendo nuovi numeri di riferimento, cancellando nomi e facendo sbocciare nuovi misteri per ogni segreto che credevano di svelare.

«Bene» riprese Herr Weber. «La sua pratica non è voluminosa, Herr Leica. Si tratta di poche pagine in un unico raccoglitore. Nulla in confronto alle quarantamila pagine che abbiamo sul cantante Wolf Biermann, o agli oltre trecento raccoglitori che lo scrittore Jürgen Fuchs può esaminare. Lei non ha lavorato molto nella defunta DDR. Non si è lasciato assoldare, non ha fatto nomi, e perciò il materiale è piuttosto scarso. Mi dispiace.»