Guardando con attenzione la foto, l’avevo collegata al primo viaggio di lavoro intrapreso con Oscar: il raduno di massa dei comunisti nell’arena di Valladolid, dove doveva parlare Carrillo. In quell’occasione gli avevo fatto da interprete, e lì era nata quella che avevo sempre ritenuto essere una vera amicizia.
Da vent’anni lo consideravo il mio migliore amico, e per tutto quel tempo lui aveva giocato a carte coperte.
Oscar. Karl Heinrich Müller. Amelia. Maria Luisa. La foto di una giovane donna insieme a dei terroristi tedeschi nel soggiorno di una comune danese. I miei pensieri giravano in tondo, a un ritmo vorticoso, ossessivamente. A un tratto fui colto da una nausea terribile, mi alzai, trovai un bagno e vomitai tutto ciò che avevo in corpo. Mi buttai dell’acqua in faccia e mi sedetti su uno dei gabinetti a fumare una sigaretta. Poi tornai alla reception e chiesi di Herr Weber. Dopo un quarto d’ora arrivò con la borsa in una mano e diverse cartelline sotto l’altro braccio.
«Herr Lime. In cosa posso esserle utile?»
«Posso avere il dossier di Karl Heinrich Müller?»
Herr Weber mi guardò con i suoi occhi vivaci:
«Mi sembra un po’ pallido, Herr Lime. Ha bisogno di un medico?».
«No, di un drink. E del dossier di Karl Heinrich Müller.»
«Per il drink non posso aiutarla, adesso torni dentro, si sieda, intanto vedrò quel che posso fare a proposito di Karl Heinrich.»
Tornai al tavolo e aspettai, cercando invano di controllare il tremito delle mie mani. Una donna seduta poco lontano piangeva sommessamente.
Herr Weber riapparve dopo un quarto d’ora, posò un foglio di carta e una fotografia sul mio tavolo.
«Grazie. È stato veloce» dissi.
«Non c’è molto. Il suo dossier è andato quasi integralmente distrutto quando hanno cercato di far sparire le prove. Stiamo provando a restaurare una parte dei documenti, ma si tratta di un processo che richiederà anni. Forse l’eternità.»
«Capisco.»
Herr Weber esitò:
«Altri in situazioni simili alla sua hanno rintracciato un ufficiale superiore. Alcuni sono disposti a parlare, altri no».
«Grazie, Herr Weber.»
«Non c’è di che, Herr Lime. Non c’è di che.»
Aveva ragione: su Oscar c’era pochissimo materiale.
Karl Heinrich Müller era stato reclutato nel 1967, tramite le guardie di frontiera, nelle quali aveva prestato il servizio militare. Dall’età di quattordici anni era stato informatore occasionale della STASI. All’età di diciannove era stato introdotto clandestinamente in Germania Occidentale, con una nuova identità e un passato fittizio. Aveva collaborato con diversi periodici, in parte finanziati dalla DDR o da Mosca. La foto ritraeva Oscar da giovane con le guance rasate e indosso la brutta uniforme dei Vopo. Aveva i capelli cortissimi e lo sguardo intenso. Alle sue spalle si intravedeva un tratto del Muro. Lessi il documento due volte. Non risultava che avesse dato le dimissioni. C’era scritto che il suo grado attualmente era quello di maggiore, e che era stato proposto per l’ordine di Lenin, in virtù del lungo e prezioso servizio prestato. La candidatura all’ordine di Lenin era stata avanzata nell’ottobre 1989, in concomitanza con il quarantennale della DDR. Un mese prima del crollo del Muro di Berlino. Possibile che all’epoca nessuno nella STASI sospettasse l’enormità del cambiamento che stava per abbattersi sulle loro teste? In preda a un nuovo attacco di nausea, annotai nel mio taccuino il nome di Schadenfelt e il numero del mio dossier. Poi uscii dalla stanza lasciando i documenti sul tavolo. Per me potevano anche bruciarli.
Herr Weber era alla reception:
«Arrivederci, Herr Lime» disse. «La rivedremo?»
«No.»
«Allora archivierò la sua pratica come visionata. Un altro pezzo di sofferenza che torna da dove è venuta.»
«Addio, Herr Weber. E mi saluti le scimmie.»
Ridacchiò.
Uscire all’aria aperta fu una liberazione, e mi incamminai senza meta per le strade bagnate. Non so per quanto tempo camminai, ma a un tratto mi ritrovai in Alexanderplatz. Era già scesa la sera e la luce dei fari e delle insegne si rifletteva nelle pozzanghere. Avevo i capelli fradici, ma non pioveva più.
Entrai in un bar, andai in bagno, mi asciugai il viso e mi pettinai, poi scelsi un tavolo d’angolo e ordinai un caffè e un doppio snaps. Domandai al proprietario se potessi consultare l’elenco telefonico. Il barman me lo lanciò senza aprire bocca, e cercai il nome Schadenfelt. Risultavano tre Helmut. Uno abitava in Karl Marx Allee, a pochi passi da Alexanderplatz: decisi che tanto valeva cominciare da quello. Vuotai il bicchiere, bevvi il caffè e uscii con la testa che mi girava: l’effetto dell’alcol sul mio stomaco vuoto. Raggiunsi il portone che mi interessava e controllai il citofono. In corrispondenza del nono piano a destra, trovai il nome di Helmut Schadenfelt, e pigiai il bottone. Non rispose nessuno. Provai di nuovo. Ancora niente. Dopo una decina di minuti il portone si aprì e ne uscì una donna anziana ben vestita; allora entrai, salutandola con gentilezza. Quella mi lanciò un’occhiata vagamente sospettosa e si allontanò.
L’ascensore odorava di cavolo e vernice fresca. La porta di Schadenfelt era marrone come le altre. Suonai un paio di volte, ma non accadde nulla. Non potevo essere certo che quello fosse lo Schadenfelt che cercavo, ma il mio istinto mi diceva che era così.
Aspettai più di un’ora. Ogni volta che udivo qualcuno sulle scale, facevo finta di star salendo o scendendo a mia volta, a seconda della direzione in cui gli sconosciuti erano diretti. Infine arrivò. Era un uomo corpulento sui sessant’anni, con il viso chiazzato di rosso e l’addome rigonfio del bevitore di birra. Anche le gambette, esili sotto il ventre prominente, erano da alcolizzato. Infatti era sbronzo, e non mi notò. Con difficoltà infilò la chiave nella serratura. Quando la porta si aprì verso l’interno, feci un passo avanti dicendo, in tedesco:
«Il tenente colonnello Schadenfelt? Ha un momento?».
Lui si girò barcollando. I suoi occhi, sebbene annebbiati, erano sorprendentemente penetranti.
«Fuck off, foreigner!» disse e fece per chiudere la porta.
Avanzai di un altro passo e lo colpii all’altezza del plesso solare con l’indice e il medio della mano destra. Quando si accasciò, improvvisamente pallido, lo afferrai per la camicia e lo spinsi all’interno dell’appartamento, dove lo sbattei contro il muro. Scivolò con la schiena lungo la parete finché fu per terra. Lo sguardo era vacuo, e le vene del collo pulsavano vistosamente. Lanciai un’occhiata verso le scale. Non c’era anima viva. Chiusi la porta. Tutto si era svolto in pochi secondi.
L’appartamento di Helmut Schadenfelt era piuttosto grande, con tre camere e un bel soggiorno. Evidentemente abitava ancora nell’alloggio che il partito e la STASI gli avevano procurato anni prima. La cucina rigurgitava di piatti sporchi, il letto disfatto puzzava, e due delle stanze erano vuote, come se avesse impegnato o venduto tutti i mobili. Dappertutto c’erano bottiglie vuote. Una foto incorniciata attirò la mia attenzione: Helmut da giovane. Indossava l’alta uniforme della STASI e stava ricevendo una medaglia da Markus Wolf. Alle spalle dei due riconobbi Oscar, anche lui in alta uniforme. Guardai la data riportata in basso: 16 aprile 1985.
Ruppi la cornice contro lo spigolo di un brutto tavolo piastrellato, ne estrassi la foto e la infilai nella tasca interna del giubbotto di pelle.
Sentii Schadenfelt gemere in corridoio. Quando lo raggiunsi si era alzato su un ginocchio. Era ubriaco, ma pur sempre grande e grosso, e non volendo correre rischi gli assestai un calcio nel fianco facendolo ricadere in terra. Quindi parlai in inglese.