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«Helmut, amico mio. Sono venuto per avere qualche informazione, nient’altro. Se continuo così, finirò per ammazzarti. Se prometti di comportarti bene, diventerò molto più gentile, allora potremo bere uno snaps insieme. Batti le palpebre se capisci quello che dico.»

Batté le palpebre, e io lo aiutai a tirarsi in piedi e a raggiungere il divano verde.

«Lo snaps, in cucina» disse con voce roca. Aveva gli occhi spaventati, ma non abbastanza.

«Niente scherzi, eh, signor tenente colonnello?»

«Snaps» ripeté lui.

Andai in cucina e trovai una bottiglia nel frigorifero, quando tornai lo trovai dove lo avevo lasciato, intento a massaggiarsi un ginocchio. Gli porsi la bottiglia, e dopo aver preso un sorso lui fece per ridarmela, ma l’aspetto della sua casa mi aveva fatto passare la voglia di bere.

«Chi sei, e che cosa vuoi?» domandò. «Non ho soldi.»

«Voglio parlare di Karl Heinrich.»

«Fuck off» disse… Lo colpii senza troppa forza, ma lui cadde sul pavimento.

«Sono di pessimo umore, tenente colonnello. Vediamo di sbrigarci. Karl Heinrich?»

«Chi sei?» domandò arrampicandosi di nuovo sul divano. Era più resistente di quanto sembrasse. Quando allungò la mano afferrai la bottiglia.

«Chi sei?» ripeté.

«Peter Lime.»

Scoppiò a ridere. Poi allungò di nuovo la mano per prendere la bottiglia.

«Peter Lime. Perché non lo hai detto subito?»

L’ultima frase l’aveva pronunciata nella mia lingua madre.

«Come mai parli danese?»

«Danese, inglese, russo, tedesco. Era il mio lavoro. È stato il mio lavoro per quarant’anni. Come sta Oscar?»

Dal mio sguardo capì che quel tono non mi piaceva.

«Calmo, calmo, Peter!» disse. «Sono finito. Sono solo un vecchio. Mi arrendo. So che pratichi il karate. Beviamoci uno snaps, poi potremo parlare. So che un bicchierino ogni tanto fa piacere anche a te. So molte cose sul tuo conto. Sei il migliore amico di Karl Heinrich. Ti vuole bene come a un fratello.»

Cominciò di nuovo a ridere, e per farlo smettere gli tesi la bottiglia: prese un lungo sorso e cominciò a parlare come se avesse bisogno di confidarsi con qualcuno. Come se avesse sperato nella mia visita.

«Vedendomi adesso, non puoi capire. Il potere, l’influenza, la sensazione di essere qualcuno e di fare qualcosa. Cambiare le cose. Costruire uno stato socialista in terra tedesca. Fermare l’avanzata del capitalismo. Ma, soprattutto, il gioco: reclutare, comandare, gestire gli agenti. Non vedermi come sono oggi. Il mio è l’aspetto dei perdenti, e noi abbiamo perso la guerra. Senza spargimenti di sangue, ma l’abbiamo persa lo stesso. Io ho vissuto l’epoca della nostra grandezza. Avevamo duecentomila informatori, e nell’HVA eravamo oltre cinquemila, la crema del Ministero per la sicurezza, sotto il grande Wolf. Eravamo l’organizzazione spionistica più esperta del mondo. Sapevamo tutto quello che succedeva a Bonn, a Copenaghen, a Londra, in Vaticano. Il nostro successo fu incredibile, e sono orgoglioso di avervi contribuito.»

«Ma, come hai detto, avete perso…»

«Abbiamo perso, sì, ma se ti aspetti che mi inginocchi a chiedere perdono al mondo, scordatelo. Credevo nel socialismo, e ci credo ancora.»

Bevve di nuovo, e vedendo la luce che adesso brillava nei suoi occhi, mi preparai a rimetterlo in riga con la violenza. Ero arrabbiato e disperato, e mi accorsi che desideravo essere provocato per poter sfogare la mia aggressività.

«E Karl Heinrich? Ci credeva anche lui?»

«Quando suo padre tornò dalla prigionia sovietica, nel 1948, era diventato comunista. Karl nacque nel 1950, un anno dopo la fondazione della NATO e della Germania Occidentale. Karl Heinrich assimilò la fede rivoluzionaria insieme al latte materno. Solo uno stato tedesco socialista avrebbe potuto impedire il ritorno del fascismo. Reclutai Karl Heinrich quando aveva quattordici anni ed era già capo della Freie Deutsche Jugend nella sua scuola. Firmò il giuramento in cui prometteva di non tradire mai la patria né parlare del suo lavoro per la MfS. Ha sempre mantenuto la parola.»

«E poi?»

«Era in gamba, e siccome eravamo convinti della sua solidità ideologica, lo mandammo dall’altra parte con un’identità nuova. Avevamo già due agenti a Francoforte, una coppia che per età avrebbe potuto avere un figlio come Karl Heinrich. Così “nacque” Oscar. Trasferimmo la famiglia ad Amburgo, e il resto è storia, come si dice. È stato uno dei nostri uomini migliori. Io ho avuto l’onore di istruirlo. Divenne come un figlio per me. Non si lasciò mai corrompere. Tutto qui.»

«Non direi» dissi io. «Non direi proprio.»

«Was meinst du?»

«Quale era il compito di Oscar?» gli chiesi.

«Si occupava di questioni operative. Non ha importanza.»

Abbassò lo sguardo, che si fece assorto e torvo, allora feci un passo avanti e lo colpii due volte in viso. Non doveva dimenticare la sua paura, se volevo che accettasse di rivelare cose che aveva giurato di tenere per sé. Provò a difendersi, ma non era che un vecchio ubriaco. Gli sfilai la bottiglia di sotto il braccio.

«Ti ho chiesto che cosa faceva Oscar, Helmut» dissi.

Alzò le mani come per proteggersi da eventuali nuovi attacchi.

«Reclutava agenti, cercava di influire sull’opinione pubblica.»

«Che mi dici di una danese di nome Lola?»

Si fece pallidissimo: non era bravo a mentire, anche se aveva servito il regno della menzogna.

«Chi è?»

Si aspettava che lo colpissi di nuovo con la destra, invece gli assestai un sinistro sul naso facendolo ricadere all’indietro sul divano, un rivolo di sangue gli sgorgò da una narice.

«Ti avevo avvertito, Helmut. Sono di pessimo umore. Tu sei stato il suo ufficiale superiore fin dal 1964. Ti ho chiesto di una danese che si chiamava Lola.»

«Okay, Lime. Okay. Basta. Non picchiarmi più. Su, dammi quella bottiglia…»

«Lola» insistetti.

«Era uno dei suoi migliori agenti. A letto dava agli uomini quello che volevano, e li faceva parlare. Fu Karl Heinrich a reclutarla. Poi fu assegnata a me.»

«Perché?»

«Un agente non può dare istruzioni alla propria moglie. Non sarebbe appropriato.»

Restai di sasso. Helmut salutò il mio sgomento con una risata sprezzante che si trasformò in un accesso di tosse. Quando l’attacco passò, disse:

«Sì, hai sentito bene, Lime. Erano la coppia di agenti più in gamba che abbia mai visto. Ciascuno aveva le proprie doti, ed erano disposti a usare sia il cervello sia il corpo. Hanno servito lo stato in maniera esemplare».

«Quando divorziarono?»

«Divorzio? A quel che mi risulta sono ancora sposati, almeno per la legge della DDR. Avevano altre storie. E allora? Credi forse che abbiano mai dato peso agli stupidi tabù della morale borghese? Erano insieme anche quando erano lontani.»

«E adesso lei dov’è?»

«Non lo so. Sono in pensione anticipata. Non so niente. I am nothing.»

Lo guardai minaccioso.

«Non puoi permetterti questo appartamento. Oscar e forse anche Lola ti danno una mano, quindi te lo domando ancora: dov’è Lola?»

«A Mosca. Là abbiamo ancora conoscenze. Ma non ha importanza, Lime. Lavoravamo per una nazione riconosciuta, sovrana. Non abbiamo commesso nessun reato. I nostri nemici hanno provato a far condannare Misha non so quante volte. Non ci sono riusciti. E adesso, dammi quella bottiglia.» Scossi la testa.

«Oscar e Lola godevano del genere di copertura che consentiva loro di viaggiare per il mondo, incontrare gente, cambiare aria quando necessario. E se fossero stati l’anello di congiunzione fra la DDR e i terroristi della Rote Armee Fraktion, dell’ETA, dell’IRA e delle Brigate Rosse italiane? Se fossero due personaggi chiave del terrorismo rosso internazionale? Allora, Herr tenente colonnello, si tratterebbe sempre di un reato caduto in prescrizione e non punibile nella Repubblica Federale Tedesca? O a Roma, o a Londra? Cosa ne pensa il tenente colonnello di questa mia ipotesi?»