«Sergej Sjuganov» disse. Indossava un impeccabile abito scuro, una camicia bianchissima e una bella cravatta tenuta con fermacravatte d’oro. Al polso portava un Rolex e profumava di un costoso dopobarba. Il suo viso era solcato da piccole, sottili rughe, abbronzato, come se si concedesse vacanze di lusso o frequentasse abitualmente un solarium. I suoi occhi erano di un azzurro intenso. La sua stretta di mano fu forte e secca.
«Caffè, Mr. Sjuganov?»
«Sì, grazie. Abbiamo meno di mezz’ora, Mr. Lime. Torno a Mosca con il volo Lufthansa.»
Andai al bar e tornai con una tazza di caffè per lui e un’altra Coca per me. Gli avevo portato un paio di foto recenti di Oscar. Le avevo scattate io stesso. Ce n’era una a figura intera, un ritratto di fronte e uno in cui si vedeva più di profilo. Diedi le foto a Sjuganov, che le esaminò.
«È molto alto» disse. «Sui cinquanta. Elegante. Sicuro di sé. Ricco. Si tiene in forma, ma ha una tendenza alla pancetta. Dà nell’occhio. Mi dia qualche informazione su di lui: lingue, nazionalità, background.»
Gli dissi che Oscar era cittadino tedesco, oltre al tedesco parlava l’inglese e lo spagnolo, forse un po’ di russo. Era abituato a viaggiare. Era stato addestrato dalla STASI e aveva una storia un po’ torbida, che gli riassunsi…
Notai un guizzo nei suoi freddi occhi azzurri.
«Ah! Naturalmente questo complica un po’ le cose.»
«In che senso?» domandai.
«È più difficile trovare qualcuno abituato a confondere e a cancellare le proprie tracce. Le verrà a costare qualcosa in più, Mr. Lime. Che cosa, precisamente, vuole che faccia con quest’uomo?»
«Che lo trovi. Credo che sia a Mosca. Deve essere arrivato poco più di una settimana fa. Questo è tutto quello che so» dissi.
«Io costo mille dollari al giorno. Lei trasferirà diecimila dollari come deposito su un conto in Svizzera. Tutte le spese dell’operazione sono a carico suo. Più un premio di diecimila dollari.»
«E se non dovesse trovarlo?»
Sjuganov sorrise di nuovo:
«Un tedesco alto due metri, a Mosca da poco più di una settimana. Lo troveremo. Abbiamo le nostre conoscenze. È solo una questione di soldi e non ci vorrà più di una settimana. Se il bersaglio ha lasciato Mosca, sarà un po’ più complicato, ma non impossibile. Se non dovessimo trovarlo, lei pagherà solo le spese effettive, ma questa è un’ipotesi assurda. Lo troveremo, vivo o morto».
«Bene» dissi.
Sjuganov si sporse verso di me.
«E quando lo avremo trovato? Cosa dobbiamo fare?»
«Avrò bisogno di un interprete. Non conosco il russo.»
«Di solito c’è un motivo per cui una persona si nasconde e un’altra vuole trovarla. Quindi, che cosa vuole che facciamo una volta trovato il bersaglio? Un intervento diretto richiede una trattativa a parte. Se capisce quello che voglio dire.»
Avevo capito.
«No» dissi. «Lei dovrà solo portarmi da lui, al resto penserò io.»
«E se il bersaglio è armato? Oppure potrebbe essere protetto, avere dei complici.»
Riflettei un momento, quindi dissi:
«Se avrò bisogno di qualcuno che mi protegga, vorrei poter contare sulla vostra assistenza.»
«Nessun problema» disse alzandosi e tendendomi la mano. «So che lei paga i suoi debiti, perciò…»
«Perciò affare fatto» conclusi.
«È stato un piacere incontrarla Mr. Lime, e buon ritorno a Madrid. Ci vediamo a Mosca» disse e sparì tra la folla. Un elegante uomo d’affari in mezzo a tanti altri.
23
La mia ultima visita in Russia risaliva al tempo in cui il paese era ancora una delle quindici repubbliche socialiste della defunta Unione Sovietica. Come la DDR, l’Unione Sovietica era stata cancellata dalle carte geografiche non con la violenza e il sangue, ma con una firma che tre presidenti mezzi ubriachi in un capanno da caccia a Minsk avevano apposto su un foglio.
Vista dal cielo mentre l’aereo penetrava le fitte nuvole e iniziava l’atterraggio nell’aeroporto di Sjermentova, la Russia era identica a come la ricordavo: cosparsa di neve da cui spuntavano piccoli villaggi, il fumo che saliva dai comignoli l’unico segno di vita percepibile. Un paesaggio piatto ed eterno, interrotto solo dalle sagome dei laghi e dai fiumi ghiacciati.
Già all’aeroporto, il nuovo si mescolava al vecchio. Lunghe code si snodavano al controllo passaporto e bagagli, ma il terminal era pieno di pubblicità e di promesse di favolose vincite al casinò. I poster pubblicitari reclamizzavano marche di computer e telefoni cellulari. Ovunque c’erano montagne di bagagli. La gracchiante voce femminile diffusa dagli altoparlanti pareva la stessa di sempre. I russi che tornavano a casa, mescolati agli uomini d’affari e ai turisti, erano vestiti meglio di quanto ricordassi.
Sergej Sjuganov aveva mantenuto la parola chiamandomi dopo dieci giorni. Il bersaglio era stato individuato, c’era una stanza prenotata a mio nome all’Hotel Intourist, sulla Piazza Rossa. L’albergo era di categoria inferiore rispetto a quelli in cui alloggiavo normalmente, ma era più anonimo del restaurato Metropol o del National. Sjuganov sperava nella mia comprensione. Mi aveva dato un numero di fax pregandomi di comunicare la data e l’ora esatta del mio arrivo. Mi sarebbero venuti a prendere all’aeroporto.
Prima di partire avevo telefonato a Gloria per informarla. Aveva dichiarato di voler venire anche lei, ma le avevo detto che era meglio di no, e si era lasciata convincere senza tante storie. Era comprensibile che in realtà non avesse voglia di ritrovarsi faccia a faccia con Oscar. Preferiva portare a termine la separazione definitiva da lui barricata dietro articoli di legge e fredde citazioni in giudizio. La causa procedeva secondo le previsioni, mi aveva detto. I conti erano stati chiusi. L’agenzia andava avanti. Mi aveva chiesto di rientrare come socio, e questa volta non avevo risposto subito di no. Ma in cuor mio sapevo di non volerlo fare. Mi era divenuto chiaro a bordo dell’aereo, mentre pensavo a Clara e alla possibilità di iniziare una nuova vita insieme a lei.
Uscii nella sala arrivi, e tra la folla scorsi un giovanotto di ventotto, ventinove anni, con indosso un giubbotto di pelle. Reggeva un cartello con il mio nome. Era ben rasato e aveva l’aria di passare metà della sua vita in palestra.
Mi salutò, prese la mia borsa e con la testa mi fece segno di seguirlo. La sua Mercedes nera era parcheggiata davanti all’ingresso. Il freddo mi colpì come una martellata. Indossavo dei jeans e il mio giubbotto di pelle sopra a un maglione pesante. Era un freddo secco, l’aria sapeva di benzina. Le macchine sostavano in folle e i gas di scarico turbinavano nel vento leggero. Il giovanotto mi tenne aperto lo sportello e presi posto sul sedile posteriore, al caldo dell’abitacolo. C’era anche un autista; quello che mi aveva accolto si sedette accanto a lui, e l’auto si staccò quasi senza far rumore dal bordo del marciapiede. Il palestrato digitò un numero sul. cellulare e disse un’unica frase in russo. Sjuganov si faceva pagare profumatamente, ma il servizio era inappuntabile.
Ci dirigemmo a velocità sostenuta verso la città. Il fondo stradale sconnesso faceva vibrare la macchina. Il traffico restò scorrevole finché non arrivammo in prossimità del centro, dove ci ritrovammo ad avanzare a passo d’uomo. Diverse strade avevano cambiato nome. Molti negozi nuovi e illuminati esponevano decorazioni e alberi di Natale finti. La città era un grande compromesso fra la vecchia pesantezza sovietica e le seduzioni della modernità occidentale. La neve era ammucchiata in cumuli lungo il marciapiede, ma la carreggiata era sgombra. Nella luce dei fari dell’automobile turbinava qualche raro fiocco di neve. Finalmente davanti a noi apparve la sagoma del Cremlino, e poco dopo arrivammo all’Hotel Intourist, un grosso grattacielo quadrato di cemento ai margini della Piazza della Rivoluzione. Un tempo quella zona era aperta al traffico, ma adesso sembrava un parco pullulante di pedoni.