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«Hanno fatto un centro commerciale, Mr. Lime. Otto piani sotto terra» spiegò il giovanotto dell’areoporto in un inglese dall’accento marcato. «Mi chiamo Igor» aggiunse.

«Piacere, Igor» dissi.

Scendemmo ed entrammo nella lobby brulicante di persone.

«I documenti, prego» disse Igor. Gli porsi il passaporto e il visto. Si avvicinò alla reception e si rivolse a due impiegate immerse in una fitta conversazione. Quelle lo ignorarono, e lui parlò di nuovo in tono più duro. Subito una delle due allungò la mano per prendere i miei documenti, mentre l’altra consegnava la chiave elettronica a Igor con un sorriso di scusa.

Salimmo al diciannovesimo piano e percorremmo un lungo corridoio, Igor bussò a una porta, e si fece da parte per cedermi il passo. Era una bella suite con tanto di tavolo per riunioni. L’arredamento era nuovo, nei toni rossi e marroni già preferiti dall’Unione Sovietica. C’erano un minibar, un televisore e un cartello che informava che l’albergo era dotato di telefono satellitare. E c’era Sergej Sjuganov.

Indossava il suo abito impeccabile. Mi tese la mano.

«Benvenuto a Mosca, Mr. Lime. Si serva da bere e poi ci mettiamo al lavoro. Sicuramente lei è un uomo impegnato quanto me.»

«Indubbiamente» risposi. Feci per aprire il minibar, ma Sjuganov scosse la testa e mi indicò la bottiglia di vodka posata su un tavolino. Riempì due bicchierini e mi tese il mio.

«Alla riuscita dell’operazione» disse e bevve tutto d’un fiato; io lo imitai.

Igor, probabilmente uno dei gorilla di Sjuganov, era seduto su una sedia accanto alla porta.

«Guardi qui» disse Sjuganov. Sul tavolo ovale al centro della stanza erano posate alcune foto e una cartina di Mosca e dintorni.

Le foto ritraevano Oscar insieme a una donna che riconobbi essere Lola, anche se si era tinta i capelli di nero. C’erano foto di Oscar da solo, di Lola da sola, di Oscar e Lola insieme. Dalle stampe sgranate capii che le immagini erano state scattate con il teleobbiettivo, alcune con un mille, altre con un quattrocento. L’ambientazione era un mercato dove piccole donne grassocce avvolte in cappotti informi e con i fazzoletti in testa sedevano tra pile di frutta e verdura. Un’altra serie di foto li ritraeva davanti a una grande casa rossa immersa in un bosco di betulle, dove una spessa coltre di neve ammantava i rami e il terreno. C’era un aggeggio nero montato sul muro che circondava tutta la casa: probabilmente una telecamera. Con un brivido, in una delle foto riconobbi il grosso irlandese con il manganello della casa di San Sebastián. In un’altra immagine Oscar e Lola sembravano immersi in un’animata discussione. L’irlandese li guardava, sotto il suo cappotto sbottonato si intravedeva una fondina da spalla. Lola era uguale a come l’avevo vista nelle immagini televisive a Copenaghen, mentre Oscar aveva un’aria devastata, furiosa.

Sjuganov mi lasciò esaminare le foto con tutta calma. Oscar era fuggito a Mosca perché c’era Lola, e qui sperava di poter stare al sicuro finché si fossero calmate le acque. La Russia era un paese in cui con i soldi si potevano comprare sia l’influenza, sia la sicurezza. Ma io lo avevo trovato. E adesso, che dovevo fare? Il fatto che Lola fosse lì non mi sorprendeva, né faceva alcuna differenza, ma quale sarebbe stata la mia prossima mossa?

«È pronto ad ascoltare quello che abbiamo scoperto?» mi domandò Sjuganov.

«Credo di sì.»

«Okay, Mr. Lime. Il bersaglio abita in una villa di recente costruzione nei dintorni di Mosca. In un vecchio quartiere di dacie. Una dacia, se non lo sapesse, è una casa per le vacanze russa, ma oggi può significare una grande villa in muratura fatta costruire fuori città da persone molto ricche. Un tempo l’élite del partito abitava in quella zona, ma è stata privatizzata e adesso ospita le case di gente, come dire, intraprendente che desidera pace, tranquillità e la massima sicurezza. Mi segue?»

«La seguo.»

«Il bersaglio è nei guai. Negli ultimi due giorni ha provato invano a cambiare un assegno, a far addebitare le sue spese sulla Visa, l’Eurocard e l’American Express. Le carte risultano bloccate e questo manda in bestia il nostro uomo, che comunque, per il momento, è in possesso di contanti. Talvolta esce, ma per lo più resta a casa. Beve troppo e litiga molto con la donna. Dormono insieme, anche se hanno ognuno la propria camera da letto. Almeno, così crediamo.»

«Sa chi è la donna?» domandai.

Sjuganov mise da parte le foto e disse:

«Non faceva parte del nostro compito controllare la sua identità, ma sappiamo due o tre cose di lei».

«Sarebbe a dire?»

«È ricca. La casa è sua e so da chi l’ha acquistata. Ha conoscenze al Ministero della cultura. Ha ottenuto la licenza di mercante d’arte a tempo di record. È autorizzata a comprare e a vendere arte russa e a esportarla. Anche opere con più di cinquant’anni. Una licenza del genere deve esserle costata parecchi soldi, ma non avrà difficoltà a farla fruttare. Il mio paese svende i propri beni. In tutti i modi. E un russo può disapprovare questo fatto, oppure fare in modo di partecipare alla spartizione della torta. In fondo non cambia niente. Una volta in questa città parlava Lenin. Oggi è il denaro a parlare.»

«Come si fa chiamare la donna?» chiesi.

«Svetlana Petrovna. È brava. È già riuscita a introdursi nelle cerchie vicine al Presidente, e grazie a questo fatto è considerata intoccabile. Ho l’impressione che quella donna riuscirebbe a vendere sabbia nel Sahara.»

«O neve a Mosca» aggiunsi.

Guardai le foto di Lola, che anche con i capelli neri era bellissima. Nell’immagine davanti alla villa il suo sguardo per Oscar era pieno di disprezzo. Evidentemente i tentacoli di Gloria erano arrivati fin laggiù. Se Oscar non dipendeva economicamente da Lola, poco ci mancava. Chissà quale impatto quella realtà avrebbe avuto sulla loro atipica relazione? La parte del più debole, del bambino costretto a chiedere la paghetta non si addiceva affatto a Oscar.

«La casa sembra nuova di zecca, Mr. Sjuganov. Chi era il precedente proprietario?»

«A Mosca tutte le abitazioni come quella sono nuove, Mr. Lime» rispose Sjuganov contemplando la foto a colori. «Fu fatta costruire dal direttore di una banca privata. A quanto pare era un mezzo mafioso. Fu ucciso a colpi di arma da fuoco davanti alla sede centrale della sua banca. Allora la villa passò nelle mani di un ragazzo di ventidue anni, che ci andò ad abitare con le sue due mogli e quattordici guardie del corpo. Il ragazzo era un famoso produttore della neonata televisione privata. Ma le due mogli non riuscivano a mettersi d’accordo su quale fosse la sua preferita, così lo fecero ubriacare, fecero in modo che si imbottisse di cocaina e poi lo affogarono nella piscina che lui stesso aveva fatto costruire.»

«Che storia agghiacciante» commentai.

«Questa è la Russia» disse Sjuganov e continuò: «Il proprietario prima della Petrovna era un noto mafioso che controllava i mercati della verdura di Mosca. Aveva problemi con i suoi soci d’affari. Un bel giorno sparì, e da allora nessuno ha più sue notizie. Madame Petrovna ha acquistato la villa da un prestanome che conosco. L’ha avuta per pochi soldi, anche perché agli altri aspiranti fu fatto capire che dovevano tenersi alla larga».

«Chi era il prestanome?»

Sjuganov versò un’altra vodka per sé e una per me, quindi disse:

«Non sono tenuto a darle questa informazione, ma lo farò ugualmente. Il prestanome era un vecchio collega dei tempi del KGB, Victor Ljubimov. Visto che la Petrovna in passato ha lavorato per un’organizzazione analoga, è possibile che con la faccenda della casa Victor le abbia restituito un antico favore. Nonostante tutto, negli ex compagni sopravvive il senso dell’onore. In alcuni rapporti i soldi passano in secondo piano».