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«Siamo sicuri che l’incarico che le ho affidato non interferisca con questo senso dell’onore, con qualche debito in sospeso…»

«Di me si può fidare, Lime. Lei è mio cliente, e io non ho nulla a che fare con quella donna. Non c’entra niente con il mio incarico né con la mia vita, presente o passata.»

«Va bene, Sjuganov. Allora mi dica, dove posso trovare la coppia felice?»

Sjuganov si concesse un sorriso e aprì la cartina stendendola sul tavolo. Mi mostrò dov’era l’Hotel Intourist, ai margini della Piazza Rossa e, con il dito, mi guidò in direzione della periferia occidentale lungo un grande viale chiamato Kutusovskij, poi verso destra, fino a una zona che sembrava un grande bosco punteggiato di laghi, dove tutta una serie di stradine secondarie sfociava sulla stretta strada principale. Sulla cartina erano riportati numerosi piccoli villaggi. Mi indicò quello più vicino alla casa di Lola e Oscar, a una quarantina di chilometri da Mosca.

«Voglio andare laggiù domani» dissi.

Sjuganov ripiegò la cartina. La sua guardia del corpo era sempre seduta presso la porta, con le mani sulle ginocchia, l’espressione a un tempo vigile e rilassata. Sjuganov si schiarì la gola e disse:

«Come vuole, Mr. Lime. Ma sappia che il bersaglio è protetto. Nella villa ci sono due irlandesi, forse ex membri dell’IRA. Lola ha due guardie del corpo che alloggiano nella vecchia dacia di legno della proprietà. C’è un sistema di telecamere. Come pensa di introdursi nella casa?».

«Pensavo di suonare il campanello» risposi.

La mia risposta lo sorprese. Si aggiustò la cravatta.

«Non glielo consiglierei» disse.

Sjuganov produsse una serie di foto a colori. Anche quelle erano state scattate con un teleobbiettivo, ma si vedevano chiaramente sia Oscar sia Lola. In una delle foto i due sembravano arrabbiati. In un’altra camminavano fianco a fianco. Lola era elegante nel mantello di pelliccia che le arrivava alla caviglia e un grazioso berretto di pelle. Oscar era avvolto in un lungo e pesante cappotto e stringeva in mano qualcosa di simile a una mazza da golf. O una lunga spranga.

«Crede di poter giocare a golf sulla neve?» dissi.

Sjuganov rise:

«La porta sempre con sé. Secondo me è un’arma. Infatti, guardi qui.»

Mi mise davanti un’altra foto. Questa volta c’era anche il grosso irlandese. Seguiva i due a qualche metro di distanza, con le mani sprofondate nelle tasche di uno spesso cappotto di pelle. In testa portava uno zucchetto di lana. Aveva l’aria infreddolita e annoiata.

«Il bersaglio esce raramente, e mai da solo. Quindi, Mr. Lime, devo chiederle ancora una volta. Che cosa vuole che faccia? Che cosa vuole fare? Il mio compito, tutto sommato, è concluso.»

«Passeggiano tutti i giorni?» domandai.

«Di solito fanno una passeggiata di mattina. Il giorno della recente bufera di neve l’uomo è rimasto in casa.»

«Come sono le previsioni del tempo per domani?» domandai.

«Gelo e sole, neve nel pomeriggio. Una giornata invernale come piace a noi russi. La mattina ideale per una passeggiata nel bosco» rispose Sjuganov e mi guardò come a dire che adesso la palla si trovava nella mia metà campo.

Riflettei un po’ e infine dissi:

«Andiamoci domani. Ho bisogno del vostro aiuto per tenere uno o entrambi i gorilla lontani, mentre io parlo con il mio ex amico e ascolto quel che ha da dire.»

«Le serve un’arma?» chiese Sjuganov.

«No. Non sarà necessario. Niente sparatorie. Solo una chiacchierata amichevole.»

«È proprio questo che mi fa paura» disse Sjuganov.

«Domani» dissi io.

«Per noi va bene. È il cliente che decide. Questa è la legge fondamentale dell’economia di mercato. Si faccia trovare pronto qui in albergo domani mattina alle otto. Bisognerà che le procuriamo degli abiti più adatti, però» disse Sjuganov. «Credo di avere la sua stessa taglia. Che numero di scarpe porta?»

«Quarantaquattro, quarantaquattro e mezzo» risposi.

Con fare formale mi tese la mano; gliela strinsi:

«Ci sarà anche lei?» gli domandai.

«Verrò insieme a Igor, mio amico e collega dei vecchi tempi.»

«Quali vecchi tempi?»

«I tempi della falce e martello. Igor era nella mia ultima squadra, specializzata in raccolta di informazioni, sabotaggio, infiltrazione e gestione dei nemici dello stato. È uno degli elementi migliori che abbia mai avuto. Poi è finito tutto e ci siamo messi in proprio. Anche nella nuova Russia non corro certo il rischio di rimanere disoccupato.» Fece un cenno in direzione dell’uomo silenzioso seduto accanto alla porta e i due sparirono, lasciandomi solo nella stanza con la vista sui tetti ammantati di neve.

Provavo uno strano senso di vuoto. Avrei dovuto sentirmi spaventato, teso, ma per il momento non ero né l’una né l’altra cosa. Poi, guardando ancora le foto di Oscar e Lola, sentii la rabbia che tornava a insinuarsi nel mio animo. Il fatto che Oscar avesse avuto una doppia vita per tanti anni, che avesse servito una dittatura, mi sgomentava. Ma quei fatti appartenevano al passato, non riguardavano specificamente lui e me. Non stava a me condannarlo oppure perdonarlo. L’assassinio di Amelia e Maria Luisa, invece, mi riguardava direttamente. E sia che avesse messo la bomba con le proprie mani, sia che avesse delegato quel compito ad altri, consideravo Oscar responsabile.

Ero a Mosca perché volevo sapere, volevo sentirmi dire, che le due persone che più avevo amato in vita mia erano morte a causa sua. Vittime del suo egoismo e della sua sete di potere, del suo disperato tentativo di seppellire il passato e far finta che non fosse mai esistito. Aveva fatto l’impossibile per nascondere il suo segreto, finché la mia foto era saltata fuori, una dimostrazione del fatto che non ci sarebbe mai riuscito. Perché c’è sempre qualcuno che ricorda, c’è sempre un’altra foto o una didascalia che qualcuno ha tralasciato di cancellare.

24

L’indomani, alle otto meno qualche minuto, Sjuganov bussò alla mia porta. Avevo dormito male. La stanza era troppo calda, ma a quanto sembrava, abbassare il riscaldamento era impossibile. Più volte nella notte, ero stato tentato di scendere in uno dei numerosi bar o nel casinò dell’albergo. Ma non lo avevo fatto. Avevo bevuto quasi un’intera bottiglia di vino e avevo guardato la CNN alla televisione. Avevo sollevato il ricevitore del telefono americano AT&T per chiamare Gloria e Clara, ma poi avevo cambiato idea. Avevo contemplato i tetti e i pennacchi di fumo fuori della finestra. A giorno fatto mi ero finalmente addormentato.

Sjuganov, vestito di nero da capo a piedi, entrò a passi energici nella stanza. Aveva con sé una borsa sportiva contenente un paio di pantaloni pesanti, una canottiera di lana, un maglione, calze, giacca a vento, scarponi, guanti e uno zuccotto da sci azzurro.

«Fa freddo oggi» disse. «C’è vento e la neve arriverà prima del previsto. Indossi questi, poi ci muoveremo. Ho già mandato due uomini sul campo. Ci avviseranno se il bersaglio uscirà. Se non lo farà, dovremo rimandare l’operazione a domani.»

I vestiti e gli scarponi mi stavano a pennello. Quando uscimmo dall’albergo non mi sembrò che facesse tanto freddo. Nell’aria c’era umidità e una sensazione di neve. Montammo sul sedile posteriore della Mercedes nera e Sjuganov mi porse un grosso bicchiere di plastica pieno di caffè e un panino fresco al formaggio. Igor occupava il sedile anteriore accanto all’autista, che si sarebbe detto un suo clone: aveva gli stessi capelli a spazzola, lo stesso giubbotto di pelle e la stessa espressione vigile stampata in volto.

Il traffico era intenso e i vigili imbacuccati nei cappotti neri onnipresenti. Quasi informi nelle divise spesse, stavano piantati in mezzo alle corsie agitando le palette. Quando uno di loro ci fece cenno di accostare, vidi l’autista tendergli un documento e una banconota. Quello gli restituì il documento senza guardarlo e ripartimmo.