Mentre bevevo il caffè dolce e caldo, immaginai che quella non fosse che una delle mie solite spedizioni: avevo ingaggiato qualcuno perché mi aiutasse a scovare una celebrità, e adesso settimane di ricerche stavano finalmente per dare i loro frutti. Presto mi sarei trovato di fronte alla mia preda ignara. Ma la realtà era diversa, e questa volta non avevo portato né la Leica né la Nikon.
Dopo circa un quarto d’ora, l’automobile superò un grande arco di trionfo, e subito dopo, sulla sinistra, scorsi un altro monumento in lontananza.
Sjuganov parlò.
«Ha visto? Celebrano due vittorie fondamentali per questo paese. L’arco è per il 1818, quando sconfiggemmo Napoleone. Il secondo monumento commemora la vittoria sui tedeschi. Siamo un paese costruito con il sangue e con gli scheletri. Non abbiamo molto di cui andare fieri. Per questo coltiviamo il ricordo della guerra e delle nostre vittorie in guerra. Soprattutto la nostra vittoria contro Hitler ci unisce. È l’unica cosa pulita che ci rimane. L’unica cosa che ancora sentiamo si avere in comune, Mr. Lime. La Russia è sinonimo di sofferenza. In questo maledetto paese non c’è una sola famiglia che non abbia una storia di guerra e di morte da raccontare».
Svoltammo a destra e costeggiammo un gruppo di caseggiati azzurri, poi la strada si restrinse e cominciammo ad avanzare tra le betulle. Per non pensare a Oscar e al nostro imminente incontro, domandai:
«Sjuganov, qual è la sua opinione circa il cambiamento? Il crollo del comunismo, la nuova Russia».
«Siamo a un guado, Mr. Lime. Viviamo in una società capitalistica che è in mano ai ladri, e la Duma e il Cremlino pullulano di delinquenti. Ma è un momento di passaggio. Io ho servito il socialismo, non con grande convinzione, ma perché ero un patriota russo. E lo sono ancora. Sono per la democrazia e per l’economia di mercato. Per quest’ultima perché mi ha arricchito. Per la prima perché rappresenta il futuro. E quando uno ha dei figli deve pensare al futuro.»
«Lei ha figli?»
«Un ragazzo di diciassette anni e una ragazza di quattordici. Il maschio è in collegio in Inghilterra; La femmina frequenta una scuola privata inglese qui a Mosca. Sono loro la nuova Russia. Dimenticheranno l’eredità degli scheletri. Sono convinto che siamo sulla strada giusta, ma spetterà alle nuove generazioni liberare la Russia dalle tenebre.»
«Che cosa dicono i suoi figli del lavoro del padre?»
Deglutì.
«I ragazzi non sanno niente del mio lavoro. Sono un uomo d’affari. Per tutta la vita ho lavorato diciotto ore al giorno. Prima lo stato e il partito mi elargivano soldi e privilegi in cambio dei miei servizi. Oggi mi procuro tutto da me. Ho una bella casa, mia moglie può andare a fare la spesa nei nuovi supermercati. Andiamo in vacanza in Florida. In cambio del mio lavoro non ricevo più medaglie, ma soldi. Ho rinunciato a considerare la mia vita da un punto di vista morale. La mia esistenza è votata al benessere della mia famiglia e alla soddisfazione dei miei clienti. Lei non è tipo da condannare questo atteggiamento, vero?»
«Neanche per sogno» risposi.
Proseguimmo in silenzio sulla strada che si inoltrava nel bosco di betulle. Da molto tempo non vedevo tanta neve, sulla terra, sui rami, sui tetti delle case. Attraversammo un paio di cittadine, e di fianco a un caffè mi parve di riconoscere il mercato della foto. Sjuganov mi guardò annuendo: «Ci siamo quasi».
Entrammo in una specie di radura e l’autista spense il motore. Igor e Sjuganov scesero dall’auto e indossarono una tuta bianca con cappuccio che tirarono fuori dal baule. Sjuganov parlò sottovoce in russo nel suo walkie-talkie, e ricevette una gracchiante e concisa risposta.
«Il bersaglio non ha ancora lasciato la villa. Lei aspetti in macchina, così non sentirà freddo.»
Igor si mise ai piedi un paio di sci corti e si addentrò agilmente nel bosco. Con la tuta bianca quasi impercettibilmente intessuta di fili dorati, sparì ben presto alla vista, perfettamente mimetizzato con i colori della neve e delle betulle. Rimasi seduto sul sedile posteriore. L’autista girò la chiavetta dell’accensione e accese il ventilatore, e Sjuganov mi offrì un’altra tazza di caffè. Mi sembrava di stare lavorando. Mi trovavo sul posto, ero pronto. Adesso non mi restava che aspettare.
Dopo circa mezz’ora il walkie-talkie di Sjuganov gracchiò, e lui rispose sbrigativamente. A un suo cenno scesi dalla macchina. Il cielo era greve e la neve sempre più vicina.
«Il bersaglio sta arrivando» annunciò Sjuganov. «C’è anche la donna, e il grosso irlandese, come al solito, li segue a distanza di una decina di metri. Anche se tra loro parlano tedesco, probabilmente i due preferiscono non farsi sentire da lui.»
«Sono pronto» dissi infilandomi i guanti e abbassandomi il cappello sulle orecchie.
«Sa sciare, Lime?» mi domandò.
«Assolutamente no» risposi.
«La guiderò io fino al bersaglio. Poi tornerò un po’ indietro e mi porterò tra la guardia del corpo e il bersaglio. Quanto tempo le occorrerà?»
«Cinque minuti. Il tempo di fargli una domanda.»
Sjuganov mi guardò perplesso, parlò brevemente nel walkie-talkie, e ci incamminammo. Seguimmo le forme degli sci di Igor e ben presto ci ritrovammo nel folto del bosco. Sebbene fossimo a poche centinaia di metri dalla strada principale, perdetti quasi subito il senso dell’orientamento. Neve, betulle e sterpaglia: lì attorno non c’era altro, e tutti gli scorci si assomigliavano. Se Sjuganov mi avesse abbandonato mi sarei smarrito con molta facilità. Lui procedeva agile e spedito nella mimetica bianca, mentre io sprofondavo in continuazione nei punti in cui la neve era più alta, oppure restavo impigliato in un ramo. Dopo una decina di minuti ci ritrovammo su un sentiero. Qui la neve era compatta, calpestata da diverse paia di scarponi e striata da tracce di sci. Eravamo in cima a una specie di collinetta, da cui dominavamo un lungo tratto del sentiero.
«Io aspetto qui» disse Sjuganov. «Se vuole, può allontanarsi un po’ e nascondersi dietro un albero. Il bersaglio e la donna passeranno davanti a me, così potrò bloccare la guardia del corpo.»
«Non la vedranno?» domandai stupidamente: infatti a mo’ di risposta estrasse una pistola a canna lunga da sotto la tuta e con un cenno del capo mi fece capire che dovevo sbrigarmi. Feci come aveva detto. Quando fui dietro l’albero cercai con lo sguardo Sjuganov, ma non vidi altro che neve, betulle e cespugli.
Udii Lola e Oscar ancor prima di vederli. Stavano litigando. Il tedesco di Lola era spedito e fluente. Mi parve che discutessero di soldi, ma da quella distanza non potevo esserne sicuro. Mi accovacciai e sbirciai da dietro il tronco.
Oscar batteva la mazza da golf contro i cumuli di neve e i rami. Era un’immagine assurda. Chissà, magari era impazzito.
Oltrepassarono il punto in cui pensavo fosse appostato Sjuganov, e si diressero verso di me. Quando furono a una distanza di circa cinque metri, apparve il grosso irlandese, e fu come se Sjuganov si materializzasse nella neve alle sue spalle. Vidi il gorilla irrigidirsi mentre, con tutta probabilità, Sjuganov gli bisbigliava una minaccia all’orecchio e gli piantava la canna della pistola nella schiena.
«Questo paese mi fa schifo» diceva Oscar. «Che cazzo posso fare? Gloria mi ha ripulito e visto che tu non vuoi darmi altro che spiccioli, allora…»
«Devi avere pazienza, Karl Heinrich. Troviamo un accordo» disse Lola. «Posso proporti…»
«Sono stufo delle tue fottute proposte» gridò Oscar conficcando la mazza in un cumulo di neve e sollevando una cascata bianca. Lola si scostò e inarcò le sopracciglia ben delineate, visibilmente infastidita da quelle bambinate.