Uscii dal mio nascondiglio.
«In Russia non ci sono molti campi da golf, Oscar» dissi in inglese.
Per qualche attimo lui rimase completamente immobile, quasi che il gelo lo avesse trasformato in ghiaccio. Avevo immaginato e sognato quel confronto tante volte negli ultimi giorni, e adesso non provavo altro che disprezzo. Oscar aveva una brutta cera. Il suo viso era pallido e pieno di rughe sotto il colbacco, gli occhi lacrimosi e iniettati di sangue. Erano gli occhi di quando si abbandonava ai vizi, alcol e anfetamine. Di quando dormiva poco e diventava irascibile e aggressivo. Si riscosse, si guardò alle spalle e vide che l’irlandese non arrivava.
«Il tuo amico ha da fare, Oscar» dissi.
«Fottiti, Lime» sibilò Oscar con voce arrochita dalla rabbia.
«Peter Lime, che piacere» disse Lola, in danese. «Certo che ne sono passati di anni.»
«Taci, non sono qui per parlare con te» dissi.
«I soliti modi sgarbati» ribatté lei con la sua voce affettata. Nell’attimo in cui mi voltai per guardarla, Oscar alzò il bastone e mi colpì con violenza all’altezza del ginocchio: un dolore lancinante mi fece urlare e piegare in avanti e la mazza tornò a colpirmi, questa volta sulla schiena. Oscar aveva mirato alla nuca, ma Lola gli aveva dato una spinta salvandomi la vita. Il dolore era intollerabile. Cercai di rimettermi in piedi mentre Oscar si girava furioso verso Lola per colpirla in pieno viso con la mazza di ferro.
«Sjuganov!» gridai rialzandomi, e, zoppicando, mi mossi per andarlo a cercare. Oscar guardò Lola, che distesa su un fianco tingeva la neve di rosso, poi guardò me. I suoi occhi erano furiosi e vacui.
«Sjuganov!» gridai di nuovo. Ma ad apparire fu l’irlandese. La faccia insanguinata e feroce era quella di un assassino. Impugnava una pistola.
Le cose si mettevano male. Mi lanciai giù per il bosco come potevo, zoppicando e cadendo, poi rialzandomi, mentre nell’aria echeggiava uno sparo, poi un altro seguito da un sibilo a pochi metri da me.
«Resta qui, Lime!» Era la voce di Oscar, stavolta in spagnolo. «Non ti muovere, brutto stronzo. Non ho ancora finito con te, vigliacco figlio di puttana. È colpa tua se mi trovo in questo buco. Mi hai rovinato la vita bastardo fottuto. Torna qui! Jack, get him. But don’t kill the motherfucker!»
Mi allontanai arrancando più in fretta che potevo, la paura più forte del dolore. Aveva cominciato a nevicare e il vento soffiava gelido contro la mia faccia. Ma dove cazzo erano finiti Sjuganov e Igor? Sentii altri due spari, non ero in grado di dire a quale distanza. Mi ritrovai su uno stretto sentiero dove la neve era più compatta. Dopo una curva mi fermai, mi sfilai i guanti e mi appiattii contro un albero. L’irlandese si avvicinava di corsa. Aveva la guancia insanguinata, ma non riuscivo a vedere nessuna ferita. Forse il sangue non era suo? Correva un po’ goffamente, la pistola nella destra. Balzai in avanti, feci un giro su me stesso e cercai di colpirlo in viso. Il ginocchio dolorante mi fece vacillare un po’ e lui, che era abituato alla lotta, abbassò la testa da un lato. Lo colpii alla spalla, e la pistola gli cadde di mano sparendo nella neve. Ritrovò subito l’equilibrio, e si mise in posizione di combattimento, con le braccia mobili in avanti e le ginocchia leggermente flesse e scattanti. Sbuffò:
«Allora vuoi fare la lotta, eh, Lime. Che bello. Fatti sotto, figlio di puttana, dai, fatti sotto».
Sentii i passi pesanti di Oscar che si avvicinava urlando infuriato. Fintai con la sinistra, e l’irlandese rise della mia mossa troppo prevedibile spostando agilmente il peso del corpo. Il potente calcio che sferrai all’albero proprio accanto a lui fece vibrare i rami carichi di neve che si rovesciò in una cascata farinosa. Il mio avversario ne rimase temporaneamente accecato e perse l’equilibrio. Gli conficcai il piede nell’inguine, poi lo colpii alla gola con il taglio della mano destra tesa, come mi aveva insegnato Suzuki raccomandandomi di ricorrere a quella mossa solo in situazioni estreme, lo colpii alla gola. Sentii lo schiocco rivoltante e secco del suo collo che si rompeva.
Oscar mi era quasi addosso. Riuscii a schivare il colpo della sua mazza da golf, e contemporaneamente a fargli lo sgambetto che lo fece cadere lungo disteso nella neve. Si rialzò in un lampo e mi saltò addosso, stringendomi il costato tra le braccia fino a farmi uscire tutta l’aria dai polmoni. Lo colpii due volte con la mano sinistra cercando di centrarlo all’altezza della laringe. Al terzo colpo gli ruppi un sopracciglio, e un fiotto di sangue gli zampillò dal naso. Prese a spingermi all’indietro, nel tentativo di torcermi le braccia sulla schiena. Mi divincolai dalla sua stretta e gli piantai il gomito in un rene. Lui mugolò come un animale ferito, ma anziché stramazzare a terra, fece un giro su se stesso cercando la mazza fra la neve; allora lo colpii ancora una volta in faccia con la destra, talmente forte che le nocche mi si spaccarono. Oscar cadde all’indietro contro un albero, e i suoi occhi si fecero vitrei.
«Accidenti, Oscar. Io volevo solo parlare con te» dissi. «Volevo una spiegazione.»
Non riuscivo quasi a parlare.
«Perché Amelia? Perché Maria Luisa?» gli chiesi mentre cercavo di riprendere il controllo del respiro. Ormai nevicava fitto, e la neve sferzava il viso contuso di Oscar mescolandosi al rosso del sangue che gli usciva dal naso, dalle labbra e dal sopracciglio. Si portò la mano alla bocca e sputò un dente. Poi si lanciò di nuovo alla carica, ma la sua ira adesso era così folle da renderlo incapace di controllare i movimenti.
Scansai facilmente i suoi colpi goffi e scoordinati, finché non desistette, si voltò e si mise a correre lungo il sentiero. Rimasi un attimo interdetto, poi, istintivamente, mi lanciai al suo inseguimento. Lo sentivo ansimare a pochi metri da me, ma nella bufera solo a tratti riuscivo a scorgere il nero del suo cappotto.
Non so per quanto corressimo. I miei polmoni si contraevano dolorosamente, il ginocchio mi uccideva, ma non mi fermai. La neve cadeva così abbondante da ricoprire ogni impronta quasi nell’istante in cui nasceva. All’improvviso mi ritrovai fuori del bosco. Vidi che Oscar era caduto, e giaceva a diversi metri da me su una piatta, bianca distesa. Si alzò in piedi, ma ricadde e si tirò su di nuovo, quand’ecco che il ghiaccio del fiume su cui eravamo finiti cedette sotto i suoi piedi. Oscar liberò con uno strattone la gamba intrappolata, ma con uno scricchiolio sinistro il ghiaccio se la rimangiò. Si udì un altro scricchiolio e Oscar affondò fino alla cintola nell’acqua mortalmente fredda. Mi mossi per raggiungerlo avanzando con cautela sul ghiaccio che gemeva ad ogni mio passo.
Oscar mi guardava con occhi traboccanti di angoscia e disperazione. Fece un tentativo di sollevarsi fuori del buco puntellandosi con le braccia, con l’unico effetto di aprire una nuova crepa nel ghiaccio. La neve sferzava l’acqua nera attraverso lo squarcio sempre più minaccioso. Ero a un paio di metri da lui.
«Perché le hai uccise, Oscar?»
«Aiutami, Peter» disse. «Aiutami. Muoio di freddo.»
«Perché, Oscar?»
«Fu uno sbaglio. Jack e gli altri dovevano solo prendere quella fottuta foto e qualche altro negativo. Dovevano solo bruciare quei negativi del cazzo. Sarebbe sembrato un caso di furto qualsiasi. Ma Amelia li sentì, e invece di starsene buona, li affrontò, si difese. Allora quegli irlandesi bastardi persero il controllo, si fecero prendere la mano. Credevo che fosse tutto finito, invece quella maledetta foto saltò fuori di nuovo. Perché accidenti non lasciasti perdere? Tanto niente avrebbe potuto ridartele. Quel che era fatto era fatto, idiota che non sei altro. Eravamo amici. Lo pensavo davvero. Lo penso davvero. Uno sbaglio, è stato uno sbaglio.»
Non c’era pentimento nelle sue parole. Non abbastanza. L’assassinio della mia famiglia per lui era un errore deplorevole, una disgrazia da superare in fretta, perché bisognava pur andare avanti. Presi a indietreggiare lentamente verso la sponda mentre nuove crepe tagliavano sibilando la superficie gelata del fiume. Oscar mi stava ancora fissando quando, con un grido terribile, sparì sotto il ghiaccio, dove la corrente lo afferrò e lo trascinò via.