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«Si vede subito che la foto è tua» disse. «C’è tutto. Stile, tensione, mistero, inquietudine. Già da giovane eri molto bravo.»

Ripose le foto del ministro e dell’attrice italiana in una busta, mi diede un buffetto sulla guancia e si avviò alla porta.

«A dopo» lo salutai.

Rimasto solo accesi il cellulare per controllare la segreteria. C’era un messaggio della Hoffmann che mi pregava di richiamarla. L’avrei fatto senz’altro, più tardi. Mi avvicinai agli armadi di acciaio. Là dentro, chiusi a chiave, riposavano innumerevoli pezzi della mia vita trascorsa. Aprii il primo armadio. I negativi erano sistemati in ordine cronologico, anno per anno. Per ogni serie di immagini avevo indicato la data e il soggetto. Ce n’erano a migliaia. I miei frequenti viaggi non mi avevano impedito di tenere un archivio accurato delle foto. Perfino nei periodi più caotici della mia esistenza, quando avevo avuto l’impressione di camminare sull’orlo di un abisso, conservare e ordinare il frutto del mio lavoro era rimasta una priorità. E adesso quei frammenti di tempo fissati in millesimi di secondo erano sistemati in bell’ordine negli armadi d’acciaio.

Non tutti, però.

La foto di Lola poteva far parte del mio archivio segreto, di cui perfino Oscar ignorava l’esistenza. Più ci pensavo più mi sembrava probabile che le cose stessero proprio così. Non solo ero sempre stato geloso dei miei negativi, ma consideravo le foto migliori e quelle più scottanti un’assicurazione sulla vita, l’equivalente di una pensione, oltre che una parte di me. Da giovane avevo preso l’abitudine di spedire alcuni, selezionati negativi ai miei genitori. Infilavo il negativo in una busta indirizzata a me stesso, e questa a sua volta in un’altra che spedivo ai miei genitori. I quali avevano istruzioni di conservare la lettera fino alla mia prossima visita in Danimarca, quando l’avrei aperta per riporne il contenuto in una valigia. Negli anni, diverse volte avevo sostituito la valigia con una sempre più capiente, fino ad arrivare all’attuale grossa Samsonite bianca con la serratura a combinazione. Vi custodivo il negativo della famosa foto di Jacqueline Kennedy, e di altre che mi avevano reso una fortuna. Ma anche quelli di paesaggi che mi avevano emozionato particolarmente, e le foto scattate con la mia prima Leica. Un’immagine turistica piuttosto banale della Piazza Rossa di Mosca nel 1980 era custodita insieme al ritratto di un’antica fidanzata. C’erano negativi di foto scattate in Iran, India, Danimarca, tracce del mio progetto di immortalare tutti i locali frequentati da Hemingway. Le prime foto di Amelia e Maria Luisa subito dopo il parto. Ma c’erano anche le lettere d’amore di una vita, un paio di pagelle, qualche tema e i miei goffi tentativi di comporre poesie, schizzi, annotazioni e pensieri buttati giù in fretta. Quella valigia, insomma, era una sorta di diario e aveva sempre rappresentato un punto fermo nella mia esistenza. Alla morte dei miei genitori, l’avevo affidata a un avvocato incaricato di ricevere e conservare la mia posta. Poi, cinque anni prima, avevo consegnato la valigia al padre di Amelia, un ex agente segreto che aveva fatto della riservatezza una regola di vita.

Io e Don Alfonso nutrivamo opinioni discordanti su molte cose, ma potevamo contare sulla fiducia e il rispetto reciproco.

Perciò presi uno dei negativi più espliciti del ministro e la sua pupa, lo contrassegnai con data e luogo dello scatto e lo misi in una busta che indirizzai a me stesso. Infilai la busta in una più grande insieme a due righe di saluto per Don Alfonso.

Controllai la mia casella e-mail e risposi a diversi messaggi di collaboratori che mi informavano su possibili “colpi”. Notizie e voci sui luoghi in cui i vip della terra si preparavano a trascorrere le vacanze. Per il momento non avevo intenzione di lanciarmi in una nuova impresa, ma ringraziai ugualmente le mie fonti e trasferii mille dollari sul conto di un informatore particolarmente abile e zelante.

La diva del teatro arrivò in ritardo, insieme alla sua sarta di scena. Mentre scattavo, inanellò tenera e allegra storie di amori vecchi e nuovi, pettegolezzi dell’ambiente e aneddoti piccanti. Era ancora molto attraente, e un talento palpabile nell’abilità di controllare i più piccoli muscoli del viso. Voleva apparire ringiovanita di vent’anni, bella di una bellezza misteriosa simile a quella della Gioconda. Se la foto le fosse piaciuta, avrebbe preteso che il teatro la utilizzasse per la promozione. Ormai la foto a fini promozionali era un fatto cruciale non solo per la gente di spettacolo ma anche per gli scrittori, categoria che infatti mi capitava di ritrarre sempre più spesso. Il successo di un romanzo sembrava dipendere più dall’avvenenza dell’autore che dal suo talento, l’immagine era tutto, il contenuto un optional.

Al termine dello shooting trascorsi qualche ora in camera oscura a lavorare sul ritratto dell’attrice. Non ero del tutto soddisfatto del risultato, e decisi che le avrei chiesto di tornare a posare un’altra volta.

A prescindere dalla qualità delle foto, la camera oscura per me era un rifugio, un luogo di felicità. Il mondo circostante spariva. C’ero solo io, io e le mie immagini che affioravano nella luce rossa per effetto di processi chimici da me sapientemente e creativamente controllati. Uscito dalla camera oscura mangiai un panino veloce e mi apprestai a uscire. Era ora di andare in palestra. Erano vent’anni che facevo karate e i proprietari giapponesi della scuola erano miei vecchi amici. Il karate mi aiutava a scaricare le tensioni e a tenermi in forma. Ma soprattutto apprezzavo le conversazioni con Suzuki, il vecchio maestro, la sua capacità di guardare il mondo dall’alto e mettere tutto in prospettiva.

Oscar non condivideva il mio amore per le arti marziali. In compenso aveva recentemente scoperto il golf e vi si era buttato con tutto l’entusiasmo un po’ ossessivo dei cinquantenni inquieti, sempre a caccia di nuove, totalizzanti passioni. Era troppo alto per sperare di poter eccellere in quello sport, ma ci dava dentro quasi fosse una questione di vita o di morte. Mi aveva convinto a cimentarmi diverse volte, ma l’esperienza mi aveva lasciato freddino.

Uscii dal portone. L’aria calda dell’estate madrilena mi colpì come uno schiaffo mentre gli odori e i suoni della città mi avvolgevano. Passai davanti al caffè Viva Madrid e percorsi i pochi metri fino a Calle Echégaray. Lasciai cadere la busta con il negativo in una buca delle lettere e proseguii soddisfatto. Bettole e pensioncine punteggiavano la calle. Il marciapiede era talmente stretto da costringere i passanti ad addossarsi ai muri delle case al passaggio delle automobili. Da giovane avevo abitato per un periodo alla pensione Las Once, di fronte all’Hotel Inglés e alla scuola di karate. Quest’ultima aveva aperto lo stesso anno in cui mi ero trasferito nella piccola stanza della pensione gestita dal Señor Alberto e dalla sua Señora. Rosa, la cameriera trentenne e probabilmente vergine, era analfabeta e incredibilmente arcigna. Aveva lineamenti forti, un po’ rozzi, il corpo corto e pienotto perennemente fasciato da un grembiule rosa. Faceva le pulizie e preparava da mangiare insieme alla Señora. Rosa era nata in un piccolo villaggio della Galizia, da una famiglia numerosa di contadini. Tutte le mattine il padre e gli altri uomini della casa andavano in piazza nella speranza che il fattore del proprietario terriero offrisse loro una giornata di lavoro. La miseria allora era diffusa e il divario fra le classi sociali spaventoso. Sapevo che Rosa era stata mandata a servizio a sette anni, anche se non ero riuscito a scoprire come fosse approdata alla Pension Las Once di Madrid. Ogni sera la Señora prendeva il giornale «ABC» e cercava di insegnarle a leggere. La sera in cui Rosa era riuscita a leggere da sola i titoli, il vecchio Señor Alberto era andato a prendere una bottiglia di sherry che conservava da più di venticinque anni e avevamo festeggiato.

Camminavo assorto nei miei pensieri, circondato dalla vita e dai rumori rassicuranti della città, quando all’improvviso due uomini mi sbarrarono il passo. Erano entrambi alti, sui trentacinque anni e indossavano abiti di buon taglio.