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«Non ho intenzione di scendere là sotto» annunciò l’operatore con voce decisa.

Lissandra lo guardò dal basso in alto. «No» rispose. «Mettiti sulla porta e brucia tutto. Riduci tutto in cenere. Chiaro?»

Lui fece cenno di sì con la testa.

Simon Kress si lamentò. «La mia casa» gemette. Gli si contorsero le budella. Il re della sabbia bianco era così grosso. Quanti altri ce n’erano laggiù? «Fermi» esclamò. «Lasciate stare. Ho cambiato idea. Basta.»

Lissandra non capì. Gli mostrò la mano. Era ricoperta di sangue e di un icore nero-verdognolo. «Il tuo amichetto mi ha morso tranciando di netto il guanto, e hai visto che cosa ci è voluto per staccarlo. Me ne infischio della tua casa, Simon. Tutto quello che c’è là sotto deve morire.»

Kress la udì appena. Pensò di avere intravisto del movimento tra le ombre, oltre la porta della cantina. Immaginò un esercito bianco che avanzava, formato da tanti re della sabbia grandi come quello che aveva attaccato Lissandra. Si vide sollevato da cento piccole braccia, e trascinato giù nell’oscurità, dove la mandibola attendeva famelica. Era terrorizzato. «Non fate niente» ripeté.

Lo ignorarono.

Kress si lanciò in avanti, e la sua spalla urtò contro la schiena dell’uomo di Lissandra, proprio mentre stava per aprire il fuoco. Questi grugnì, perse l’equilibrio e cadde in avanti nel buio. Kress lo sentì precipitare giù per le scale. Dopo si udirono altri rumori: suoni attutiti di qualcosa che corre, tenta di mordere, come di vischioso.

Kress si voltò per affrontare Lissandra. Grondava sudore freddo, ma in lui c’era una sorta di eccitazione malsana. Quasi sessuale.

Gli occhi calmi e glaciali di Lissandra lo fissavano attraverso la maschera. «Che cosa stai facendo?» gli chiese, quando Kress raccolse il laser che lei aveva lasciato cadere. «Simon!»

«Voglio fare la pace» disse con una risatina imbarazzata. «Non faranno del male al loro dio, almeno finché sarà un dio buono e generoso. Sono stato crudele. Ho fatto patire loro la fame. Adesso devo rimediare, capisci.»

«Tu sei pazzo» disse Lissandra. Furono le sue ultime parole. Con una fiammata Kress le aprì nel petto un foro abbastanza grande da farci passare un braccio. Trascinò il cadavere sul pavimento e lo fece rotolare giù per le scale. I rumori furono più forti: urti di carapaci, raschi, echi di qualcosa di denso e liquido. Kress inchiodò nuovamente le assi sulla porta.

Allontanandosi, provò un profondo senso di soddisfazione che rivestiva la sua paura come uno strato di sciroppo. Sospettò che non fosse roba sua.

Progettò di abbandonare la casa, fuggire in città e prendere una camera per una notte, o magari per un anno. Invece cominciò a bere. Non sapeva bene perché. Andò avanti per ore, finché vomitò tutto con forti conati sul tappeto del soggiorno. Dopo di che si addormentò. Quando si svegliò, nella casa era buio pesto.

Si raggomitolò contro il divano. Sentiva dei rumori. Qualcosa si stava muovendo sulle pareti. Erano tutt’intorno a lui. Il suo udito era estremamente acuto. Ogni cigolio corrispondeva al passo di un re della sabbia. Chiuse gli occhi e aspettò, nell’attesa del terribile contatto, con la paura di muoversi nel timore di urtare una di quelle creature.

Kress gemette, e restò immobile per un po’, ma non successe niente.

Aprì di nuovo gli occhi. Tremava. A poco a poco le ombre cominciarono a diradarsi e dileguarsi. Il chiaro di luna filtrava attraverso le alte finestre. I suoi occhi si adattarono.

Il soggiorno era deserto. Non c’era niente, solo le sue paure da ubriaco.

Simon Kress si armò di coraggio, si alzò e accese la luce.

Niente. La stanza era silenziosa, deserta.

Restò in ascolto. Niente. Nessun rumore. Niente sulle pareti. Era stato tutto frutto della sua immaginazione, della sua paura.

I ricordi di Lissandra e di quella cosa in cantina gli tornavano spontaneamente alla memoria. Un sentimento di vergogna e di rabbia lo invase. Perché lo aveva fatto? Avrebbe potuto darle una mano a bruciarla, eliminarla. Perché... lui lo sapeva. Era stata la mandibola, era stata lei a fargli nascere dentro la paura. Wo aveva detto che aveva poteri psionici nonostante le piccole dimensioni. E adesso era diventata grande, enorme. Aveva banchettato con Cath e Idi, e adesso laggiù c’erano altri due cadaveri. Avrebbe continuato a crescere. E aveva imparato a gustare la carne umana, pensò.

Cominciò a tremare, ma poi si dominò e recuperò la calma. Non gli avrebbe fatto del male. Lui era dio. I bianchi erano sempre stati i suoi preferiti.

Ricordò come l’aveva pugnalata con la spada-da-lancio. Era successo prima dell’arrivo di Cath, maledizione a lei.

Kress non poteva restare lì. La mandibola avrebbe avuto fame di nuovo. Grande com’era, non ci sarebbe voluto tanto. Il suo appetito sarebbe stato mostruoso. Che cosa sarebbe stata capace di fare, allora? Doveva andarsene, mettersi in salvo in città, mentre lei si trovava ancora in cantina. Giù c’era solo intonaco e terra battuta: le unità mobili avrebbero potuto scavare, aprire una galleria. E una volta libere... Kress non voleva pensarci.

Andò in camera sua e fece i bagagli. Prese tre valigie. Gli serviva solo un cambio di vestiti; il resto dello spazio lo riempì con oggetti di valore, gioielli, pezzi d’arte e altre cose che non si sentiva di lasciare. Non pensava di ritornare.

Lo shambler lo seguì giù per le scale, fissandolo con i suoi demoniaci occhi incandescenti. Era magrissimo. Kress si rese conto che erano secoli che non gli dava da mangiare. Di solito riusciva a cavarsela da solo, ma indubbiamente negli ultimi tempi la scelta si era ridotta. Quando l’animale cercò di aggrapparsi alle sue gambe, gli ringhiò contro e lo allontanò con una pedata, e quello corse via, offeso.

Kress uscì furtivo, trascinando le valigie, e chiuse la porta dietro di sé.

Per un momento si appoggiò contro il muro della casa, con il cuore che gli batteva forte. Ormai c’erano solo pochi metri, tra lui e l’aeromobile. Aveva paura a percorrerli. Il chiaro di luna brillava intensamente, il terreno davanti alla casa era uno scenario di carneficina. I corpi dei due operatori di Lissandra erano rimasti dove erano caduti, l’uno contorto e carbonizzato, l’altro sepolto sotto una massa di re della sabbia morti. E tutto intorno a lui c’erano unità mobili, nere e rosse. Bisognava fare uno sforzo per ricordare che erano morte: sembravano solo in attesa, come se lo avessero fatto altre volte.

Un’assurdità, si disse Kress. Le solite paure da ubriaco. Aveva visto i castelli cadere a pezzi. Erano morti tutti, e la mandibola bianca era intrappolata giù in cantina. Fece alcuni profondi respiri e camminò sopra i re della sabbia. Li sentì scricchiolare sotto i piedi. Li ridusse rabbiosamente in polvere. Nessuno di essi si mosse.

Kress sorrise, e attraversò con calma il campo di battaglia, ascoltando i rumori, il suono della salvezza.

Croc, crac, croc.

Posò le valigie a terra e aprì lo sportello dell’aeromobile.

Qualcosa si mosse nel passaggio dall’oscurità alla luce. Una pallida ombra sul sedile del veicolo, lunga come il suo avambraccio. Udì le ganasce chiudersi con uno scatto delicato, e alzarsi verso di lui sei occhietti distribuiti lungo tutto il corpo.

Kress se la fece sotto e indietreggiò lentamente.

Altri movimenti nell’abitacolo. Aveva lasciato lo sportello aperto. Il re della sabbia uscì, avanzando verso di lui, guardingo. Altri lo seguivano. Erano stati nascosti sotto i sedili, rintanati nell’imbottitura. Adesso però uscivano allo scoperto. Formarono un anello frastagliato attorno all’aeromobile.