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Kress si inumidì le labbra, si girò e andò rapidamente verso il veicolo di Lissandra.

Si fermò ancora prima di aver percorso metà del tragitto. Anche lì qualcosa si muoveva nell’abitacolo. Cose simili a grosse larve, intraviste nel chiarore della luna.

Kress emise un lamento e tornò verso casa. Arrivato alla porta d’ingresso guardò in alto. Contò una decina di lunghe ombre bianche che strisciavano lungo i muri dell’edificio. Quattro di esse erano raggruppate vicino alla cima della torretta campanaria abbandonata, dove un tempo era appollaiato l’avvoltoio. Stavano incidendo qualcosa. Un volto. Facilmente riconoscibile.

Simon Kress lanciò un urlo e corse dentro.

Una certa quantità di alcol gli procurò il piacevole oblio che cercava. Ma poi si svegliò, nonostante tutto si svegliò. Aveva un forte mal di testa, l’alito pesante ed era affamato. Sì, affamato come non era mai stato.

Kress sapeva che non era il suo stomaco a reclamare cibo.

Un re della sabbia bianco lo fissava dall’alto del cassettone in camera da letto, con le antenne che si muovevano impercettibilmente. Era grande come quello nell’aeromobile la notte precedente. Kress aveva la gola riarsa, come carta vetrata. Si inumidì le labbra e uscì dalla stanza.

La casa era piena di re della sabbia: doveva stare attento a dove metteva i piedi. Sembravano tutti indaffarati, ognuno se ne andava per conto proprio. Stavano apportando delle modifiche alla casa, entrando e uscendo dai muri, scolpendo qualcosa. Per due volte vide la propria effigie che lo fissava dai punti più impensabili. E sempre le facce erano alterate, contorte, livide di paura.

Uscì a prendere i cadaveri che stavano marcendo in mezzo al cortile, sperando di placare la fame della mandibola bianca. Erano entrambi spariti. Kress ricordò la facilità con cui le unità mobili potevano trasportare cose molte volte più pesanti di loro.

Era terribile pensare che, anche dopo quello, la mandibola potesse avere ancora fame.

Quando Kress rientrò in casa, una colonna di re della sabbia stava scendendo per le scale. Ognuno trasportava un pezzo del suo shambler. La testa sembrò fissarlo con aria di rimprovero, mentre lo superavano.

Kress svuotò i surgelatori, gli armadietti, tutto, accatastando sul pavimento della cucina tutto il cibo che aveva in casa. Una decina di bianchi aspettava di portarlo via. Evitarono i surgelati, lasciandoli a scongelarsi in una grande pozza, ma presero tutto il resto.

Finite le scorte, Kress sentì attenuarsi i morsi della fame, anche se non aveva mangiato niente. Però sapeva che la tregua sarebbe durata poco. Presto la mandibola avrebbe avuto ancora fame. Doveva nutrirla.

Kress sapeva cosa fare. Si diresse verso il telecomunicatore. «Malada» esordì con naturalezza, quando la prima dell’elenco dei suoi amici rispose. «Stasera do una festicciola. Mi rendo conto che il preavviso è veramente minimo, ma spero che tu riesca a venire. Lo spero proprio.»

Poi chiamò Jad Rakkis, e via via gli altri. Quando ebbe finito, nove avevano accettato l’invito. Kress si augurava che sarebbero bastati.

Andò ad accogliere gli ospiti all’esterno della casa — le unità mobili avevano ripulito tutto straordinariamente in fretta, e il giardino era quasi tornato come prima della battaglia — e li accompagnò fino alla porta. Li fece entrare, ma non li seguì.

Quando i primi quattro arrivati furono dentro, Kress raccolse tutto il suo coraggio. Chiuse la porta dietro l’ultimo ospite, ignorando le esclamazioni spaventate che ben presto diventarono acuti farfugliamenti, e scattò verso l’aeromobile con cui erano arrivati. Salì a bordo, sfiorò la piastra di partenza e imprecò. Ovviamente era programmata per poter decollare solo con l’impronta del pollice del suo proprietario.

Poi arrivò Jad Rakkis. Kress corse verso il suo aeromobile appena toccò terra, afferrò Rakkis per un braccio mentre stava scendendo. «Torna subito a bordo, presto» disse, spingendolo. «Portami in città. Dai, Jad. Andiamo via di qui!»

Ma Rakkis si limitò a fissarlo, e non si decideva a muoversi. «Perché, cosa c’è che non va, Simon? Non capisco. E la festa?»

A quel punto era troppo tardi, la sabbia smossa attorno a loro si stava animando, occhi rossi li fissavano e si udiva un battere di ganasce. Rakkis emise un suono strozzato, e fece per risalire sull’aeromobile, ma un paio di mascelle si chiusero di scatto all’altezza della sua anca, e lui improvvisamente si ritrovò in ginocchio. La sabbia sembrò ribollire di un’attività sotterranea. Jad si dimenò e gridò come un ossesso mentre veniva fatto a pezzi. Kress riuscì a stento a guardare.

Da quel momento non cercò più di fuggire. Quando tutto fu finito, diede fondo all’armadietto dei liquori, e si prese una sbronza colossale. Sapeva che sarebbe stata l’ultima bevuta. Tutti gli alcolici rimasti erano giù in cantina.

Kress non toccò cibo in tutto il giorno, ma si addormentò con la sensazione di essere pieno, finalmente sazio, la tremenda fame era scomparsa. Il suo ultimo pensiero cosciente, prima che gli incubi lo assalissero, fu chi avrebbe potuto chiamare l’indomani.

Il mattino era caldo e asciutto. Kress aprì gli occhi e vide il re della sabbia bianco di nuovo sul cassettone. Li richiuse subito, sperando di uscire dal sogno. Non fu così, e non poteva riaddormentarsi. Si ritrovò ben presto a fissare la creatura.

La osservò per cinque minuti prima di rendersi conto della stranezza: il re della sabbia non si muoveva.

Le unità potevano stare incredibilmente immobili, d’accordo. Le aveva viste aspettare e fissare qualcosa un sacco di volte. Ma in loro c’era sempre qualche movimento: l’aprirsi e chiudersi delle mascelle, le zampe che si contraevano, le lunghe antenne sottili che vibravano e oscillavano.

Invece il re della sabbia sul cassettone era assolutamente immobile.

Kress si alzò, trattenendo il fiato, senza osare sperare. Che fosse morto? Che qualcosa lo avesse ucciso? Attraversò la stanza.

Gli occhi erano vitrei e neri. La creatura sembrava rigonfia, come se fosse imputridita all’interno riempiendosi di gas che premeva contro le piastre del bianco carapace.

Kress allungò la mano tremante e lo toccò.

Era caldo, quasi bollente, e si stavano scaldando sempre di più. Però non si muoveva.

Ritirò la mano, e come lo fece un frammento dell’esoscheletro bianco si staccò. La carne sotto era dello stesso colore, ma sembrava più morbida, turgida e febbricitante. Pareva quasi pulsare.

Kress si ritrasse e corse verso la porta.

In corridoio c’erano altre tre unità mobili bianche. Erano come quella in camera da letto.

Scese di corsa le scale, scavalcando altri re della sabbia. Nessuno si muoveva. La casa ne era piena, tutti morti, morenti o in coma. A Kress non importava che cosa avessero, solo che non si potevano muovere.

Ne trovò quattro nell’aeromobile. Li raccolse uno alla volta, e li lanciò più lontano che poté. Maledetti mostri. Risalì a bordo, sui sedili mezzo smangiati, e sfiorò la piastra di partenza.

Non successe niente.

Riprovò di nuovo, e poi ancora. Niente. Non era giusto. Quello era il suo aeromobile, doveva partire, non capiva perché non decollasse.

Alla fine scese e controllò, temendo il peggio. Era così. I re della sabbia avevano strappato la griglia di gravità. Era in trappola. Ancora.

Con aria truce ritornò in casa. Andò nella veranda e trovò l’antica ascia che aveva appeso vicino alla spada-da-lancio che aveva usato per Cath m’Lane. Si mise all’opera. I re della sabbia non reagivano neanche se li faceva a pezzi. Quando li colpiva la prima volta schizzavano, i loro corpi sembravano scoppiare. L’interno era orribile: strani organi non ancora ben formati, una fanghiglia rossastra e vischiosa che assomigliava al sangue umano, e dell’icore giallo.

Kress ne distrusse venti prima di rendersi conto dell’inutilità di quello che stava facendo. Le unità mobili, infatti, non contavano niente. Inoltre, erano una miriade. Avrebbe potuto lavorare giorno e notte, e non riuscire a ucciderle tutte.