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Le braccia e le gambe erano intorpidite dalla stanchezza. Il rombo incessante e le vibrazioni del motore incominciavano a far sentire il loro effetto. Kitty era in volo da quasi ventisette ore, dopo il decollo dall’aerodromo di Croydon, un sobborgo di Londra. Era passata dal freddo umido dell’Inghilterra alla fornace del Sahara.

Fra tre ore sarebbe scesa l’oscurità. Il vento sfavorevole della tempesta di sabbia riduceva la velocità a 90 miglia orarie, trenta di meno delle 120 che erano la velocità da crociera del vecchio e affidabile Fairchild FC-2W, un monoplano ad ala alta con l’abitacolo chiuso, azionato da un motore radiale Pratt & Whitney Wasp da 410 cavalli.

L’aereo quadriposto era stato proprietà della Pan American-Grace Airways e aveva fatto servizio postale fra Lima e Santiago. Quando era stato tolto da quella linea per essere sostituito da un modello più avanzato che poteva portare sei passeggeri, Kitty l’aveva acquistato e aveva fatto installare i serbatoi supplementari. Poi era partita per stabilire un primato nel volo da Rio de Janeiro a Madrid verso la fine del 1930, ed era stata la prima donna a trasvolare l’Atlantico meridionale.

Trascorse un’altra ora: Kitty lottava per restare sulla rotta prestabilita nonostante il vento furioso. La sabbia finissima si insinuava nella cabina e le entrava negli occhi e nelle narici. Si strofinò le palpebre, ma riuscì solo ad aggravare il disagio. Peggio ancora, non vedeva più nulla. E se non fosse stata in grado di leggere gli strumenti, sarebbe stata la fine.

Prese da sotto il sedile una borraccia, la stappò e si spruzzò l’acqua sul viso. Ristorata, batté furiosamente gli occhi. La sabbia bagnata le scorse sulle guance e si disseccò in pochi secondi nel caldo torrido. La vista ritornò, ma gli occhi sembravano trafitti da mille sottilissimi aghi.

All’improvviso Kitty percepì qualcosa, un istante infinitesimale nel tempo, forse un suono fuori sequenza, o forse un palpito di silenzio tra il vento e il rombo del motore. Si tese in avanti e studiò gli strumenti. Tutti i quadranti indicavano dati normali. Controllò i regolatori del carburante: ogni valvola era nella posizione corretta. Finì per attribuire l’impressione alla sua mente confusa.

Poi il blip si ripeté. Kitty si tese, come se volesse ascoltare con tutto il corpo. L’alternanza tra anormalità e normalità adesso era più rapida. Con una stretta al cuore riconobbe il rumore che segnalava il funzionamento irregolare di una candela. Poi una dopo l’altra tutte le candele si spensero. Il motore incominciò a tossire mentre l’ago del tachimetro ruotava all’indietro.

Ancora qualche istante, poi il motore si spense e l’elica rimase immobile. Il silenzio improvviso la investì come un’onda d’urto. L’unico suono era la voce lamentosa del vento. Kitty non aveva dubbi. Sapeva con certezza perché il motore s’era bloccato. La sabbia aveva intasato il carburatore.

I primi secondi di stupore e di paura passarono in fretta mentre Kitty prendeva atto delle limitate possibilità che si prospettavano. Se fosse riuscita ad atterrare avrebbe potuto attendere che la tempesta cessasse, e provvedere alle riparazioni. L’aereo incominciò a perdere quota, e Kitty spinse in avanti la leva per planare verso il deserto sottostante. Non sarebbe stato il suo primo atterraggio di fortuna: ne aveva all’attivo almeno sette, e in due occasioni era addirittura precipitata, cavandosela però solo con qualche graffio e qualche livido. Tuttavia non aveva mai tentato un atterraggio a motore spento nella semioscurità d’una tempesta di sabbia. Strinse con una mano la leva, con l’altra mise gli occhialoni, abbassò il finestrino laterale e sporse la testa.

Continuò a scendere senza vedere nulla, cercando disperatamente d’immaginare come poteva essere il terreno. Sapeva che, in prevalenza, il deserto era piatto: ma era certa che ci fossero canaloni nascosti e dune molto alte che attendevano solo di disintegrare il Fairchild e lei. A Kitty sembrò di essere invecchiata d’un tratto di almeno cinque anni, prima che il terreno spoglio apparisse all’improvviso sotto di lei, a poco più di trenta piedi dal carrello.

Il suolo era sabbioso ma pareva abbastanza solido per reggere le ruote. E soprattutto sembrava pianeggiante e non accidentato. I grossi pneumatici del Fairchild toccarono terra, sobbalzarono due, tre volte, poi girarono senza sforzo nella sabbia mentre la velocità si riduceva. Kitty stava per prorompere in un grido di gioia nell’attimo in cui la ruota di coda toccò terra… e, all’improvviso, davanti a lei il terreno franò.

Il Fairchild volò dal ciglio di un’altura piombando come un macigno in un canalone asciutto e profondo. Le ruote urtarono la sabbia e il carrello cedette. L’aereo si trovò lanciato contro la parete opposta del canalone: lo schianto, violentissimo, stritolò le strutture e lacerò la tela. Il motore, spinto all’indietro con forza, fratturò una delle caviglie di Kitty e le storse il ginocchio. L’elica si disintegrò. La donna fu sbalzata in avanti, la cintura di sicurezza, che avrebbe dovuto tenerla eretta, non era ben chiusa e Kitty batté la testa contro l’intelaiatura del parabrezza e precipitò nella tenebra.

La notizia della scomparsa di Kitty Mannock fece il giro del mondo in poche ore dopo che il suo mancato arrivo fu segnalato da Niamey. Una ricerca in grande stile e un’operazione di soccorso erano impossibili. Sarebbero state pressoché inutili, del resto. La regione desertica in cui Kitty era scomparsa era quasi del tutto disabitata, e solo raramente gli esseri umani vi si avventuravano. Non c’era un aereo nel raggio di mille miglia. E, nel 1931, non esisteva nel deserto un esercito di uomini e di materiali.

La mattina successiva una piccola unità meccanizzata della Legione Straniera francese, di stanza in quello che era allora il Sudan francese, nell’oasi di Takaldebey, diede il via alle ricerche. Presumendo che fosse precipitata lungo la pista Transahariana, gli uomini si diressero verso nord, mentre alcuni dipendenti di una società commerciale francese partirono con due macchine da Tessalit per puntare verso sud.

Le due squadre s’incontrarono sulla pista due giorni più tardi; non avevano avvistato nessun relitto, né avevano visto razzi da segnalazione durante la notte. Si sparsero per una ventina di miglia sui lati della pista e ritentarono. Quando, dopo dieci giorni, non ebbero trovato traccia dell’aviatrice scomparsa, il comandante del distaccamento della Legione Straniera abbandonò le speranze. Nessuno, uomo o donna, poteva sopravvivere così a lungo senza cibo né acqua nel deserto arroventato dal sole, disse. Ormai Kitty era morta, non c’erano dubbi.

Nelle città principali si svolsero servizi commemorativi in onore d’una delle beniamine dell’aviazione. Kitty, considerata una delle più grandi aviatrici con Amelia Earhart e Amy Johnson, fu pianta da tutti coloro che si erano esaltati per le sue imprese. Era molto graziosa, con gli occhi d’un azzurro cupo e i fluenti capelli neri, e apparteneva a una ricca famiglia di allevatori di pecore che viveva nei pressi di Canberra, in Australia. Dopo essersi diplomata, aveva preso lezioni di volo; sorprendentemente i genitori l’avevano incoraggiata e le avevano regalato un biplano Avro Avian di seconda mano, con la carlinga aperta e un motore Cirrus da 80 cavalli.

Sei mesi più tardi, sebbene la supplicassero di restare, aveva volato d’isola in isola attraverso il Pacifico fino a raggiungere le Hawaii ed era atterrata fra le acclamazioni dell’enorme folla che l’attendeva ansiosamente. Con la faccia bruciata dal sole, la camicia e i calzoncini kaki sporchi d’olio da motore, Kitty aveva sorriso stancamente e aveva risposto sbracciandosi a quei saluti, sbalordita dall’inattesa accoglienza. Da quel giorno aveva continuato a conquistare le simpatie di milioni di persone ed era diventata famosa per i suoi voli da primato attraverso oceani e continenti.