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Accadde quando avevo quarant’anni, in una notte tiepida di primavera nella città di Massilia, nella Gallia romana, mentre in una lurida taverna del porto stavo scribacchiando la mia storia del mondo.

La taverna era deliziosamente sporca e affollata, piena di marinai e di vagabondi, di viaggiatori come me, pensavo; li amavo, genericamente, anche se in maggioranza erano poveri e io non lo ero, e non potevano leggere ciò che scrivevo quando sbirciavano da sopra la mia spalla.

Ero arrivato a Massilia dopo un lungo viaggio di studio che mi aveva portato in tutte le grandi città dell’Impero. Ero stato ad Alessandria, Pergamo, Atene, e avevo osservato i popoli e li avevo descritti, e adesso stavo viaggiando nella Gallia romana.

Non avrei potuto essere più contento, quella notte, se fossi stato nella mia biblioteca a Roma. Anzi, preferivo la taverna. Dovunque andassi, cercavo luoghi come quelli per scrivere; piazzavo la candela, l’inchiostro e la pergamena su un tavolo accanto al muro, e lavoravo meglio all’inizio della serata, quando i locali erano più rumorosi.

Ripensandoci, è facile capire che vivevo tutta la mia vita al centro di un’attività frenetica. Ero abituato all’idea che niente potesse avere su di me un effetto avverso.

Ero un figlio illegittimo, cresciuto in una ricca famiglia romana… amato, viziato, libero di fare ciò che volevo. I miei fratelli legittimi dovevano pensare al matrimonio, alla politica e alla guerra. A vent’anni ero già diventato lo studioso e il cronista, quello che alzava la voce nei banchetti per dirimere le controversie di carattere storico e militare.

Quando viaggiavo, avevo denaro in abbondanza e documenti che mi aprivano tutte le porte. Dire che la mia vita era stata piacevole sarebbe dir poco. Ero un individuo straordinariamente felice. Ma l’importante è che la vita non mi aveva annoiato o sconfìtto.

Portavo in me un senso d’invincibilità, un senso di stupore. E questo fu importante per me, più tardi, quanto lo sono state per te la collera e la forza, e quanto lo sono per altri spiriti la disperazione o la crudeltà.

Ma continuiamo… Se c’era qualcosa che mi era mancato nella mia esistenza piuttosto avventurosa, anche se non ci pensavo troppo, era l’amore e la vicinanza della madre celtica. Era morta nel mettermi al mondo, e di lei sapevo solo che era stata una schiava, figlia dei bellicosi galli, avversari di Giulio Cesare. Ero biondo e avevo gli occhi azzurri, come lei. E sembrava che quelli della sua gente fossero giganti. Fin da quand’ero molto giovane torreggiavo su mio padre e sui miei fratelli.

Ma non provavo curiosità per i miei antenati galli. Ero andato in Gallia da romano colto, e non avevo coscienza del mio sangue barbaro, ma portavo con me le credenze comuni del mio tempo… che Cesare Augusto fosse un grande sovrano e che nel tempo benedetto della Pax Romana le vecchie superstizioni venissero sostituite dalla legge e dalla ragione in tutto l’Impero. Non c’era posto troppo desolato perché non vi venissero costruite le vie romane, ben presto percorse dai soldati, dagli studiosi e dai mercanti.

Quella sera scrivevo con frenesia, annotando le descrizioni degli uomini che entravano e uscivano dalla taverna: sembravano figli di tutte le razze e parlavano una dozzina di lingue diverse.

Senza una ragione, fui colto da una strana idea della vita, uno strano pensiero che quasi corrispondeva a una gradevole ossessione. Ricordo che mi prese quella sera perché sembrava in qualche modo legata a ciò che accadde poi. Ma non c’era invece alcuna relazione. Avevo avuto l’idea già prima. Il fatto che mi tornasse alla mente in quelle ultime ore di libertà come cittadino romano non era altro che una coincidenza.

L’idea era semplicemente questa: c’era qualcuno che sapeva tutto, qualcuno che aveva visto tutto. Non intendevo, con questo, che esistesse un Essere Supremo, ma piuttosto che vi fosse sulla terra un’intelligenza continuativa, una coscienza continuativa. E lo pensavo in termini pratici che mi eccitavano e nel contempo mi rasserenavano. In qualche luogo c’era una coscienza di tutte le cose che avevo veduto nei miei viaggi, una coscienza di ciò che era stata Massilia sei secoli precedenti, quando erano arrivati i primi mercanti greci, una coscienza di ciò che era stato l’Egitto quando Cheope aveva costruito le piramidi. Qualcuno sapeva com’era la luce nel tardo pomeriggio del giorno in cui era caduta Troia, e qualcuno o qualcosa sapeva quel che si dicevano i contadini nelle loro casette nei pressi di Atene prima che gli spartani abbattessero le mura.

Avevo un’idea vaga di chi fosse o che cosa fosse. Ma mi confortava la nozione che per noi non andasse perduto nulla di ciò che era spirituale, e che vi fosse una continuità della coscienza…

E mentre bevevo un altro po’ di vino e pensavo e scrivevo, mi resi conto che non era tanto una convinzione quanto un pregiudizio. Sentivo, semplicemente, che esisteva una continuità della coscienza.

E la storia che stavo scrivendo ne era un’imitazione. Tentavo di unire nella mia storia tutte le cose che avevo visto, collegando le mie osservazioni sulle terre e sui popoli con tutte le osservazioni scritte che mi erano pervenute dai greci, da Senofonte e da Erodoto e da Posidonio, fino a formare una coscienza continuativa del mondo dei miei tempi. Era una creazione pallida e limitata in confronto alla vera coscienza. Tuttavia mi sentivo soddisfatto mentre continuavo a scrivere.

Ma verso mezzanotte mi sentii un po’ stanco; e, quando alzai gli occhi dopo un periodo prolungato di concentrazione, mi accorsi che nella taverna era cambiato qualcosa.

Impiegabilmente, era molto più silenziosa. Anzi era quasi vuota. E di fronte a me, appena rischiarato dalla luce guizzante della candela, stava seduto un uomo alto e biondo che voltava le spalle al locale e mi osservava in silenzio. Mi stupii, non tanto per il suo aspetto che comunque era sorprendente, ma perché compresi che era lì da diverso tempo a osservarmi anche se non l’avevo notato.

Era un gallo gigantesco, come tutti, ancora più alto di me, e aveva la faccia lunga con mento forte e naso aquilino, e gli occhi che, sotto le ispide sopracciglia bionde, brillavano d’una intelligenza infantile. Voglio dire che appariva molto intelligente ma anche molto giovane e innocente. Eppure non era giovane. L’effetto mi sconcertava.

Ero ancora più sconcertato perché i folti, ruvidi capelli biondi non erano tagliati corti secondo la diffusa moda romana, ma gli scendevano fin sulle spalle. E, anziché la tunica e il mantello che a quei tempi si vedevano dovunque, portava la vecchia casacca di pelle con cintura che era stata caratteristica dell’abbigliamento dei barbari prima di Cesare.

Sembrava uscito dalle foreste, e mi fissava con i penetranti occhi grigi. Lo trovavo interessante. Scrissi in fretta i dettagli del suo aspetto, nella certezza che non sapesse leggere il latino.

Ma la sua immobilità silenziosa m’inquietava un poco. Gli occhi erano innaturalmente dilatati, e le labbra fremevano leggermente come se lo eccitasse vedermi. Le mani pulite, bianche e delicate, appoggiate sul piano del tavolo, sembravano contrastare con il resto della sua persona.

Una rapida occhiata mi rivelò che i miei schiavi non erano nella taverna. Con ogni probabilità erano nell’altra stanza a giocare a carte, pensai, o di sopra con qualche donna. Da un momento all’altro sarebbero tornati.

Rivolsi un sorriso forzato al mio vicino silenzioso, e ripresi a scrivere. Ma subito quello cominciò a parlare.

«Sei un uomo istruito, no?» mi chiese. Parlava il latino universale dell’Impero, ma con un forte accento, e pronunciava ogni parola con un’attenzione quasi musicale.

Risposi che sì, avevo la fortuna di essere istruito, e ripresi a scrivere, convinto che questo l’avrebbe scoraggiato. Dopotutto, nonostante il suo aspetto, non avevo voglia di parlare con lui.

«E scrivi in greco e in latino, vero?» chiese, sbirciando i fogli terminati che avevo davanti.