La dea era adorata in Roma con il nome di Cibele, e io avevo visto i sacerdoti impazziti che si castravano in preda a frenesia fanatica. E gli dèi del mito incontravano fini altrettanto violente… Atti castrato, Dioniso sbranato, l’antico Osiride smembrato prima che la Grande Madre Iside lo ricomponesse.
E io dovevo diventare il Dio della Vegetazione, il dio della vite e del grano e dell’albero, e sapevo che, qualunque cosa accadesse, sarebbe stato spaventoso.
E che cosa mi restava da fare se non ubriacarmi e mormorare quegli inni con Mael, i cui occhi si velavano di lacrime ogni tanto, mentre mi guardava?
«Fammi uscire da qui, sciagurato», dissi una volta, in preda all’esasperazione. «Perché non diventi tu il Dio dell’Albero? Perché questo onore deve toccare a me?»
«Te l’ho detto. Il dio mi ha confidato i suoi desideri. E non sono stato prescelto.»
«E accetteresti, se fossi scelto?» domandai.
Ero stanco di sentir parlare dei vecchi riti, in cui ogni uomo minacciato dall’infermità o dalla sfortuna deve offrire un sacrificio umano al dio se vuol essere risparmiato, e di tutte le altre convinzioni che avevano la stessa aura di barbarie infantile.
«Avrei paura ma accetterei», mormorò Mael. «Ma sai cosa c’è di terribile nel tuo destino? Il fatto che la tua anima sarà prigioniera per sempre nel tuo corpo. Non avrà la possibilità, nella morte naturale, di passare in un altro corpo o in un’altra vita. No, per tutti i tempi la tua anima sarà l’anima del dio. Il cielo della morte e della rinascita sarà chiuso in te.»
Nonostante il mio disprezzo per la fede nella reincarnazione, questa risposta mi mise a tacere. Sentivo lo strano peso della sua convinzione; sentivo la sua tristezza.
I miei capelli crescevano. E il caldo dell’estate lasciò il posto ai giorni freschi dell’autunno. Ci avvicinavamo alla grande festa annuale di Samhain.
Ma non rinunciavo a far domande.
«Quanti uomini hai portato qui perché diventassero dèi in questo modo? Cosa c’era in me che ti ha indotto a scegliermi?»
«Non ho mai portato qui un uomo perché diventasse dio», rispose Mael. «Ma il dio è vecchio, ha perduto la magia. Una calamità terribile lo ha colpito, e non posso parlare di queste cose. Ha scelto il suo successore.» Sembrava timoroso di dire troppo. Qualcosa suscitava in lui paure profonde.
«E come sai che cosa vuole da me? Hai sessanta candidati rinchiusi nella fortezza!»
Scosse la testa; in un momento di insolita avventatezza, disse: «Marius, se non berrai il Sangue, se non diventerai padre di una nuova razza di dèi, cosa sarà di noi?»
«Vorrei che la cosa potesse interessarmi, amico mio…» replicai.
«Ah, calamità», mormorò Mael. E fece lunghe considerazioni sull’ascesa di Roma, le terribili invasioni di Cesare, il declino di un popolo che era vissuto tra quei mondi e in quelle foreste fin dall’inizio dei tempi, disprezzando le città dei greci e degli etruschi e dei romani e preterendo le rocche dei potenti capi tribali.
«Le civiltà sorgono e muoiono, amico mio», dissi. «E i vecchi dèi lasciano il passo ai nuovi.»
«Tu non comprendi, Marius», disse. «Il nostro dio non è stato sconfitto dai vostri idoli e da coloro che ne narrano le storie frivole e lascive. Il nostro dio era bello come se la luna stessa lo avesse forgiato con la sua luce, e ci guidava in quella grande unità con tutte le cose che è l’unica cessazione possibile della disperazione e della solitudine. Ma è stato colpito da una calamità terribile, e in tutte le terre nordiche altri dèi sono periti completamente. È stata la vendetta del dio del sole: ma come sia entrato in lui il dio del sole nelle ore dell’oscurità e del sonno è ignoto a noi e a lui. Tu sei la nostra salvezza, Marius. Tu sei il mortale che sa, che può imparare e che può recarsi in Egitto.»
Riflettei. Pensai all’antico culto di Iside e di Osiride e a coloro che avevano detto che lei era la Madre Terra e lui il grano, e che Set, l’uccisore di Osiride, era il fuoco del sole.
E adesso quel pio sacerdote che comunicava con il dio mi diceva che il sole l’aveva trovato nella notte e aveva causato una grande calamità.
Alla fine rinunciai ai tentativi di ragionare.
Troppi giorni trascorsero nell’ubriachezza e nella solitudine.
Mi sdraiavo al buio e cantavo tra me e gli inni della Grande Madre. Per me, tuttavia, non era una dea. Non era né Diana di Efeso con le file di mammelle gonfie di latte, né la terribile Cibele, né la dolce Demetra il cui pianto per la figlia Persefone, perduta nella terra dei morti, aveva ispirato i sacri misteri di Eleusi. Era la buona terra di cui sentivo l’odore attraverso le finestrelle sbarrate, era il vento che portava l’odore umido della foresta verde. Era i fiori dei campi e l’erba ondeggiante, l’acqua che ogni tanto sentivo gorgogliare da una sorgente montana. Era tutte le cose che avevo ancora in quella rozza stanza di legno, dove mi era stato tolto tutto il resto. E sapevo soltanto ciò che sanno tutti gli uomini e cioè che il cielo dell’inverno e della primavera e della vegetazione racchiude in sé qualche verità sublime che si afferma senza il ricorso al mito o al linguaggio.
Guardavo le stelle attraverso le sbarre e pensavo che ero destinato a morire nel modo più assurdo e sciocco, tra genti che non ammiravo e usanze che avrei volentieri abolito. Tuttavia l’apparente santità mi contagiava, mi induceva a drammatizzare e a sognare e ad abbandonarmi, a vedermi al centro di qualcosa che possedeva una sua esaltata bellezza.
Un mattina mi sollevai a sedere, mi toccai i capelli e mi accorsi che erano fluenti e mi scendevano sulle spalle.
Nei giorni che seguirono vi furono chiasso e movimento nella fortezza. Arrivavano carri da tutte le direzioni, e migliaia di persone a piedi. A ogni ora si sentivano voci di gente in movimento.
Finalmente Mael e otto druidi vennero da me. Le loro vesti erano candide, odorose d’acqua di fonte e di sole; i capelli ben spazzolati e lucidi.
Con grande cura mi rasarono il mento e il labbro superiore. Mi tagliarono le unghie. Mi spazzolarono i capelli e mi fecero indossare vesti bianche come le loro. Quindi, riparandomi con veli bianchi, mi fecero uscire dalla casa e salire su un carro con baldacchino.
Vidi altri druidi che tenevano indietro una folla strabocchevole, e per la prima volta mi resi conto che soltanto pochi eletti erano autorizzati a vedermi.
Quando io e Mael fummo sotto il baldacchino del carro, i teli vennero chiusi, e restammo completamente nascosti. Ci sedemmo sulle rozze panche e il carro si mise in movimento. Viaggiammo così per ore, senza parlare.
Ógni tanto i raggi del sole penetravano attraverso la stoffa bianca; e quando accostavo il viso vedevo la foresta, più fitta di quanto la ricordassi. Dietro di noi veniva un convoglio interminabile, grandi carri pieni di uomini che si aggrappavano alle sbarre di legno e gridavano per essere liberati. Le loro voci si mescolavano in un coro spaventoso.
«Chi sono? Perché gridano così?» chiesi alla fine. Non sopportavo più la tensione.
Mael si scosse, come se si destasse da un sogno. «Sono malfattori, ladri, assassini, tutti condannali meritatamente, e periranno nel sacrificio.»
«Ripugnante», mormorai. Ma lo era davvero? Noi condannavamo i nostri criminali a morire sulla croce, a finire arsi sul rogo, a subire ogni crudeltà. Ci rendeva forse più civili il fatto che non parlassimo di un sacrificio religioso? Forse i celti erano più saggi di noi perché non sprecavano i morti.
Ma era assurdo. Mi sentivo stordito. Il carro viaggiava lentamente. Sentivo quelli che ci passavano accanto a piedi e a cavallo. Andavano tutti alla festa di Samhain. Stavo per morire, e non volevo finire nel fuoco. Mael sembrava spaventato. E i lamenti degli uomini imprigionati sui carri mi spingevano all’orlo della follia.
Che cosa avrei pensato quando avessero acceso il fuoco? Cosa avrei pensato quanto mi fossi sentito ardere? Non lo sopportavo.