Mi dibattevo come ci si dibatte nei sogni, incapace di gridare e di fuggire. E, quando mi accorsi che ero libero, che non ero più inchiodato al pavimento, vidi di nuovo il dio: era nero come prima ma adesso era robusto, come se la fiamma l’avesse soltanto brunito e gli avesse lasciato intatte le forze. Il volto aveva una certa bellezza, le fattezze erano ben delineate sotto l’involucro screpolato e annerito che era la carnagione. Gli occhi gialli erano circondati dalle grinze naturali e apparivano come le porte di un’anima. Ma era ancora invalido e sofferente, quasi incapace di muoversi.
«Alzati, Marius», disse. «Hai sete e io ti farò bere. Alzati e vieni a me.»
E tu conosci l’estasi che provai quando sentii il suo sangue scorrere in me ed entrare in ogni mia vena. Ma l’orrido pendolo aveva appena incominciato a oscillare.
Trascorsero ore e ore nella quercia mentre mi prendeva il sangue e me lo rendeva. Quando ero esausto, giacevo singhiozzando sulle pietre. Vedevo le mie mani ossute. Ero incartapecorito come lo era stato lui prima. E di nuovo mi faceva bere il sangue e io mi alzavo in una frenesia di sensazioni squisite, e lui me lo toglieva di nuovo.
Con ogni scambio venivano le rivelazioni: ero immortale e soltanto il sole e il fuoco potevano uccidermi, avrei dormito di giorno nella terra e non avrei mai conosciuto le infermità o la morte naturale. La mia anima non sarebbe mai migrata dalla mia forma a un’altra; ero il servitore della Madre e la luna mi avrebbe dato forza.
Mi sarei nutrito del sangue dei malfattori e anche degli innocenti sacrificati alla Madre, sarei rimasto senza nutrimento tra un sacrificio e l’altro, e il mio corpo sarebbe divenuto arido e svuotato come il grano morto nei campi invernali, ma colmandosi del sangue delle vittime sarebbe tornato bello come le piante nuove della primavera.
Nella sofferenza e nell’estasi si sarebbe scandido il cielo delle stagioni. E i poteri della mia mente, la capacità di leggere i pensieri e le intenzioni degli altri, dovevo usarli per pronunciare i giudizi per i miei fedeli, e guidarli nella giustizia e nelle leggi. Non dovevo bere altro sangue che quello del sacrificio. Non dovevo cercare di usare i miei poteri per me stesso.
Tutto questo lo appresi e lo capii. Ma ciò che mi venne insegnato veramente in quelle ore fu quello che tutti noi apprendiamo al momento in cui beviamo il sangue: non ero più un mortale, mi ero allontanato da tutto ciò che conoscevo per passare in una realtà così potente che i vecchi insegnamenti stentavano a spiegarla; e il mio destino, per usare le parole di Mael, andava al di là della conoscenza che poteva essere donata da chiunque, mortale o immortale.
Finalmente il dio mi preparò per uscire dall’albero. Mi tolse tanto sangue che stentavo a reggermi. Ero l’ombra di me stesso. Piangevo per la sete, vedevo il sangue e sentivo odore del sangue; avrei voluto avventurarmi su di lui e svuotarlo, se ne avessi avuto la forza. Ma naturalmente la forza l’aveva lui.
«Sei svuotato, come lo sarai sempre all’inizio della festività», mi disse, «così potrai bere a sazietà il sangue sacrificale. Ma ricorda ciò che ti ho detto. Dopo aver presieduto le cerimonie, devi trovare un modo di fuggire. In quanto a me, tenta di salvarmi. Di’ loro che devo essere tenuto assieme a te, anche se con tutta probabilità il mio tempo è giunto alla fine.»
«Perché? Che cosa intendi?» chiesi.
«Vedrai. Qui c’è bisogno di un solo dio, un dio efficiente», disse. «Se potessi venire con te in Egitto, potrei bere il sangue degli antichi, e forse mi risanerebbe. Così, saranno necessari secoli per guarire. E non mi verrà concesso tanto tempo. Ma ricorda: va’ in Egitto. Fai tutto come ti ho detto.»
Mi fece voltare e mi sospinse verso la scala. La torcia fiammeggiava in un angolo. Salii verso la porta. Sentivo l’odore del sangue dei druidi che attendevano, e per poco non piansi.
«Ti daranno tutto il sangue che potrai prendere», disse la voce dietro di me. «Mettiti nelle loro mani.»
8.
Non stenterai a immaginare che aspetto avevo quando uscii dalla quercia. I druidi avevano atteso che bussassi alla porta; e con la mia voce silenziosa avevo detto: Aprite, è il dio.
La mia morte umana era finita da molto tempo. Ero famelico e la mia faccia sembrava un teschio. Senza dubbio i miei occhi sporgevano dalle orbite e i miei denti erano snudati. La veste bianca mi pendeva addosso come su uno scheletro. E non avrebbe potuto esservi testimonianza più chiara della mia divinità agli occhi dei druidi che mi fissarono intimoriti quando uscii dall’albero.
Ma io non vedevo soltanto i loro volti. Vedevo nei loro cuori. Vedevo il sollievo di Mael perché il dio non era stato troppo debole e aveva potuto crearmi. Vedevo in lui la conferma di tutto ciò in cui credeva.
E vidi l’altra grande visione che è tipicamente nostra… la grande profondità spirituale di ogni uomo, sepolta in un crogiolo di carne e di sangue.
La sete era una tortura. Chiamai a raccolta tutte le mie nuove forze e dissi. «Conducetemi agli altari. Sta per incominciare la festività di Samhain.»
I druidi proruppero in grida agghiaccianti. Ulularono nella foresta. E da lontano giunse il ruggito assordante delle moltitudini che avevano atteso quell’annuncio.
Procedemmo svelti in processione verso la radura, e altri sacerdoti biancovestiti ci vennero incontro. Mi trovai sotto una pioggia di fiori freschi e fragranti che calpestavo mentre camminavo, salutato dagli inni.
Non ho bisogno di dirti come appariva il mondo alla mia nuova vista, come scorgevo ogni colore e ogni superficie sotto il velo sottile dell’oscurità, e come quegli inni mi assalivano l’udito.
L’uomo Marius era disintegrato entro il nuovo essere.
Le trombe squillarono nella radura mentre salivo i gradini dell’altare di pietra e guardavo le migliaia di fedeli… il mare di volti ansiosi, le gigantesche figure di vimini con le vittime che ancora urlavano e si dibattevano.
Davanti all’altare stava un grande calderone d’argento pieno d’acqua. Mentre i sacerdoti cantavano, una fila di prigionieri fu condotta al calderone. Avevano le braccia legate dietro la schiena.
Le voci cantavano in concerto intorno a me. I sacerdoti disponevano i fiori sui miei capelli, sulle mie spalle, ai miei piedi.
«Bellissimo, potente dio delle foreste e dei campi, bevi il sangue delle vittime sacrificali che ti sono offerte; e come le tue membra esauste si riempiranno di vita, così la terra si rinnoverà. Perciò ci perdonerai per aver tagliato il grano del raccolto, e benedirai le sementi che gettiamo.»
Vidi davanti a me coloro che erano stati scelti per essere le mie vittime; tre uomini robusti, legati come gli altri, ma puliti e vestiti di bianco, con i fiori sulle spalle e tra i capelli. Erano giovani, belli e innocenti e sopraffatti dal timore mentre attendevano la volontà del dio.
Gli squilli di tromba erano assordanti. Il ruggito della folla non cessava mai. Dissi:
«Si dia inizio ai sacrifici!» E, mentre il primo giovane mi veniva consegnato, mentre mi accingevo a bere per la prima volta dalla coppa veramente divina che è la vita umana, mentre tenevo fra le mani il corpo caldo della vittima, vidi accendere i fuochi sotto le torreggiami figure di vimini, e vidi i primi due prigionieri immersi a testa in giù nell’acqua del calderone d’argento.
Morte per fuoco, morte per acqua, morte per le zanne acuminate del dio famelico.
Gli inni continuarono durante l’estasi eterna. «Dio della luna crescente e calante, dio delle foreste e dei campi, tu che sei l’immagine della morte nella tua fame, divieni forte con il sangue delle vittime, divieni bellissimo perché la Grande Madre ti prenda per sé.»
Per quanto tempo durò? Non so. Un’eternità… le vampe dei giganti di vimini, le urla delle vittime, la lunga processione di coloro che dovevano essere annegati. Io bevevo e bevevo: non solo dai tre che erano stati scelti per me, ma da dozzine di altri che venivano riportati al calderone o costretti a entrare nei giganti in fiamme. I sacerdoti tagliavano le teste dei morti con le grandi spade insanguinate e le ammucchiavano in piramidi ai due lati dell’altare, mentre i corpi venivano portati via.