Dovunque mi volgessi vedevo l’estasi sulle facce sudate, udivo inni e grida. Ma finalmente la frenesia si placò. I giganti crollarono in un mucchio fumante sul quale gli uomini gettavano altra resina e altre fascine.
Era venuto il momento dei giudizi. Gli uomini si sarebbero presentati davanti a me e avrebbero esposto le loro motivazioni per le vendette contro altri; e io avrei guardato con occhi nuovi nelle loro anime. Vacillavo. Avevo bevuto troppo sangue; ma sentivo in me una forza così grande che avrei potuto scavalcare d’un balzo la radura per piombare nel cuore della foresta. Avrei potuto spiegare un paio d’ali invisibili, o almeno così mi sembrava.
Ma compii il mio «destino» come l’avrebbe chiamato Mael. Giudicai l’uno nel giusto, l’altro in errore, l’uno innocente, l’altro meritevole di morte.
Non so per quanto continuasse perché il mio corpo non misurava più il tempo secondo la stanchezza. Ma alla fine terminò, e mi resi conto che era venuto il momento dell’azione.
Dovevo fare qualcosa che mi aveva comandato il vecchio dio: sfuggire alla prigionia nella quercia. E avevo pochissimo tempo per farlo, non più di un’ora prima dell’alba.
Non avevo ancora deciso per quanto riguardava l’Egitto. Ma sapevo che se mi fossi lasciato rinchiudere dai druidi nell’albero sacro, vi avrei sofferto la fame fino alla piccola offerta del prossimo plenilunio. E tutte le mie notti fino a quel momento sarebbero state fatte di sete e di tortura e di quelli che il vecchio aveva chiamato «i sogni del dio», nei quali avrei imparato i segreti dell’albero e dell’erba e della Madre silenziosa.
Ma quei segreti non erano per me.
I druidi mi circondavano. Ci avviammo di nuovo verso l’albero sacro; gli inni si spegnevano in una litania che mi comandava di restare dentro la quercia per santificare la foresta, per esserne il guardiano, e parlare attraverso l’albero ai sacerdoti che di quando in quando sarebbero venuti a chiedere la mia ispirazione.
Mi fermai prima che arrivassimo alla quercia. Un’immensa pira ardeva al centro del macchione, e gettava una luce macabra sulle facce scolpite e sui mucchi di teschi umani. Gli altri sacerdoti attendevano. Una corrente di terrore mi assalì con tutta la nuova potenza che hanno per noi tali sentimenti.
Cominciai a parlare in fretta. Con voce autoritaria dissi che dovevano lasciare tutti il boschetto, e che all’alba mi sarei chiuso nella quercia con il vecchio dio. Ma capii che era inutile. Mi fissavano freddamente e si scambiavano occhiate, con occhi gelidi come pezzi di vetro.
«Mael!» dissi. «Fai ciò che ti comando. Di’ a questi sacerdoti di lasciare il macchione.»
All’improvviso metà dei sacerdoti corse verso la quercia. Gli altri mi afferrarono per le braccia.
Gridai per ordinare a Mael di fermarsi, poiché era lui che guidava l’assedio all’albero. Cercai di liberarmi, ma dieci o dodici druidi mi tenevano per le braccia e per le gambe.
Se avessi compreso la portata della mia forza, avrei potuto liberarmi facilmente. Ma non lo conoscevo. Ero ancora ebbro dopo il festino, e inorridito da ciò che sarebbe accaduto. Mentre mi dibattevo e cercavo di liberarmi le braccia e scalciavo, il vecchio dio, nudo e annerito, fu portato fuori dell’albero e lanciato nel fuoco.
Lo vidi solo per un istante; e vidi soltanto rassegnazione. Non alzò le braccia per resistere. Aveva gli occhi chiusi e non guardava me o altri. In quel momento ricordai ciò che mi aveva detto della sua sofferenza, e cominciai a piangere.
Tremavo violentemente mentre lo bruciavano. Ma dalle fiamme mi giunse la sua voce: «Fai ciò che ti ho comandato, Marius. Tu sei la nostra speranza». Era l’ordine di fuggire immediatamente.
Rimasi immobile nella stretta di coloro che mi circondavano. Piansi a dirotto e mi comportai come se fossi la vittima di quella magia, il povero dio che doveva piangere il padre perito tra le fiamme. E quando sentii le loro mani allentarsi, quando vidi che tutti guardavano il rogo, girai su me stesso con tutte le mie forze, mi liberai e corsi tra gli alberi.
In quello scatto iniziale scoprii per la prima volta quali fossero i miei poteri. Superai centinaia di iarde in un istante; i piedi sfioravano appena il suolo.
Ma immediatamente risuonò il grido: «IL DIO È FUGGITO!» e in pochi attimi la moltitudine nella radura cominciò a ripetere l’annuncio, e migliaia di mortali si avventurarono nella foresta.
Com’è potuto accadere, pensai all’improvviso, che io sia divenuto un dio, sazio di sangue umano, e fugga inseguito da migliaia di barbari celti in questa maledetta foresta?
Non mi fermai neppure per togliermi la veste bianca; la strappai mentre correvo, e poi balzai sui rami e mi mossi ancora più rapidamente tra le chiome delle querce.
Pochi minuti dopo avevo distanziato i miei inseguitori, e non li udivo più. Ma continuai la fuga, balzando di ramo in ramo, fino a che non mi rimase più nulla da temere, se non il sole del mattino.
E scoprii ciò che Gabrielle ha compreso molto presto nei suoi vagabondaggi: potevo facilmente scavare nella terra per salvarmi dalla luce.
Quando mi svegliai, l’ardore della sete mi sbalordì. Non potevo immaginare come avesse fatto il vecchio dio a sopportare l’inedia rituale. Pensavo soltanto al sangue umano.
Ma i druidi avevano avuto a disposizione tutto il giorno per inseguirmi, e dovevo procedere con estrema prudenza.
E quella notte soffrii la fame mentre correvo nella foresta; bevvi solo verso il mattino, quando trovai una banda di ladri che mi fornì il sangue di un malfattore e abiti in buone condizioni.
In quelle ore che precedevano l’alba, valutai la situazione. Avevo imparato molte cose sui miei poteri, e avrei imparato ancor di più. E sarei andato in Egitto, non per amore degli dèi e dei loro fedeli, ma per scoprire cosa significava tutto questo.
E già allora, più di millesettecento anni or sono, facevamo ricerche e rifiutavamo le spiegazioni che ci venivano date, e amavamo la magia e il potere in se stessi.
La terza notte della mia nuova vita tornai nella mia vecchia casa di Massilia e ritrovai la biblioteca, lo scrittoio, i libri. E i miei fedeli schiavi si rallegrarono nel rivedermi. Che cosa significavano quelle cose per me? Cosa contava che avessi scritto un’opera di storia e avessi dormito in quel letto?
Sapevo di non poter più essere Marius il romano. Ma avrei preso da lui tutto il possibile. Rimandai a casa gli schiavi. Scrissi a mio padre per dirgli che una grave malattia mi costringeva a passare i miei giorni nel clima caldo e asciutto dell’Egitto. Spedii il resto della mia storia a Roma, a coloro che l’avrebbero letta e pubblicata; quindi partii per Alessandria con le tasche piene d’oro, i miei vecchi documenti di viaggio e due schiavi piuttosto stupidi che non si meravigliavano del fatto che viaggiassi di notte.
E meno di un mese dopo la grande festività di Samhain in Gallia, mi aggiravo per le vie buie e tortuose di Alessandria, e cercavo gli antichi dèi con la mia voce silenziosa.
Ero pazzo, ma sapevo che la pazzia sarebbe passata. Dovevo trovare gli antichi dèi. E tu sai perché dovevo trovarli. Non era solo per la minaccia di una nuova calamità, per timore che il dio del sole mi cercasse nella tenebra del mio sonno diurno o mi visitasse con il fuoco annientatore nell’oscurità della notte.
Dovevo trovare i vecchi dèi perché non sopportavo di stare solo tra gli umani. L’orrore di questa realtà mi ossessionava; e, sebbene uccidessi soltanto gli assassini, i malfattori, la mia coscienza era troppo sensibile per accettare l’inganno. Non sopportavo la rivelazione che io, Marius, dopo aver conosciuto e apprezzato tanto l’amore nella mia vita, fossi diventato implacabile dispensatore di morte.