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9.

Alessandria non era una città vecchia. Esisteva da poco più di trecento anni. Ma era un grande porto, e vi avevano sede le più grandi biblioteche del mondo romano. Da tutto l’Impero giungevano gli eruditi desiderosi di studiare; in un’altra vita ero stato uno di loro, e adesso mi trovavo di nuovo là.

Se il dio non mi avesse comandato di andare, mi sarei addentrato nell’Egitto, «nel fondo», per usare la frase di Mael, perché sospettavo che le soluzioni di tutti gli enigmi si trovassero nei santuari più vetusti.

Ma ad Alessandria fui dominato da una strana sensazione. Sapevo che gli dèi erano lì. Sapevo che guidavano i miei passi mentre cercavo le vie che portavano ai postriboli e ai covi dei ladri, i luoghi dove gli uomini andavano a perdere l’anima.

La notte giacevo nel letto della mia piccola casa e chiamavo gli dèi. Lottavo con la follia. M’interrogavo, come tu hai detto, sul potere e la forza e i sentimenti devastanti che ora possedevo. E una notte, poco prima del mattino, quando la luce d’una sola lampada brillava attraverso i veli del letto dove giacevo, volsi lo sguardo verso la porta distante del giardino e scorsi una figura immobile e nera.

Per un momento la figura mi sembrò di sogno, perché non aveva odore, non emetteva suoni e sembrava non respirare. Poi compresi che era uno degli dèi. Ma sparì e io rimasi a guardare nel vuoto e a cercare di ricordare ciò che avevo veduto: un essere nero e nudo con la testa calva e gli occhi rossi e penetranti, che sembrava perduto nel proprio silenzio, stranamente diffidente e intento a chiamare a raccolta le forze per muoversi all’ultimo momento, prima di essere scoperto completamente.

La notte seguente, nelle viuzze secondarie, udii una voce che mi chiamava. Ma era meno articolata di quella che avevo sentito giungere dalla quercia. Mi rivelava soltanto che la porta era vicina. E finalmente venne il momento silenzioso in cui mi trovai davanti alla porta.

Fu un dio che l’aprì. Fu un dio che mi disse: «Vieni».

Ero spaventato mentre scendevo la scala inevitabile e seguivo una galleria inclinata. Accesi la candela che avevo portato con me, e vidi che stavo entrando in un tempio sotterraneo, un luogo più antico della città di Alessandria, un sacrario forse costruito dagli antichi faraoni, con i muri coperti da affreschi colorati che raffiguravano la vita del vecchio Egitto.

E c’erano le scritte, la magnifica scrittura geroglifica con le piccolissime mummie e gli uccelli e le braccia protese prive di corpo e i serpenti.

Proseguii e giunsi in un luogo dalle colonne squadrate e dal soffitto altissimo. Le stesse raffigurazioni decoravano ogni spanna della pietra. Poi scorsi con la coda dell’occhio qualcosa che all’inizio mi sembrò una statua, una figura nera ritta accanto a una colonna, con una mano appoggiata alla pietra. Ma sapevo che non era una statua. Nessun dio egizio scolpito nella diorite aveva mai avuto quell’atteggiamento e aveva portato intorno ai fianchi un gonnellino di vero lino.

Mi voltai lentamente, preparandomi a quella vista; e scorsi la stessa carne ustionata, gli stessi capelli fluenti, sebbene questi fossero bianchi, e gli stessi occhi gialli. Le labbra erano raggrinzite intorno ai denti e alle gengive e il respiro gli usciva dalla gola in un rantolo di sofferenza. «Come sei venuto, e da dove?» chiese in greco. Mi vedevo come mi vedeva quell’essere, luminoso e forte, e persino i miei occhi azzurri erano un piccolo mistero in più. Vedevo i miei indumenti romani, la tunica di lino trattenuta sulle spalle da fibbie d’oro, il mantello rosso. Con i lunghi capelli biondi dovevo sembrare un viaggiatore giunto dalla foresta del nord e «civilizzato» soltanto in superficie… e forse era vero.

Ma era lui, quello che mi preoccupava. Lo vedevo meglio, con la carne screpolata e arsa fino alle costole, modellata sulle clavicole e sulle ossa sporgenti del bacino. L’essere non era affamato: aveva bevuto sangue umano di recente. Ma la sua sofferenza era come un calore che s’irradiava da lui, come se il fuoco lo bruciasse ancora dentro, come se fosse lui stesso un inferno.

«Come sei fuggito alle ustioni?» chiese. «Che cosa ti ha salvato? Rispondimi!»

«Non mi ha salvato nulla», dissi, parlando anch’io in greco. Mi avvicinai tenendo scostata la candela, quando fece il gesto di rifuggirne. In vita era stato magro e con le spalle ampie come gli antichi faraoni; e i lunghi capelli neri erano tagliati diritti sulla fronte, secondo la vecchia usanza.

«Non ero ancora stato creato quando è accaduto», dissi. «Sono stato creato in seguito, dal Dio della Foresta sacra in Gallia.»

«Allora colui che ti ha creato era illeso.»

«No, era ustionato come te; ma aveva ancora la forza per farlo. Mi ha dato e preso il sangue molte volte. E ha detto: ‘Va’ in Egitto e scopri perché è accaduto questo’. Ha detto che gli dèi della foresta sono bruciati, alcuni nel sonno e altri da svegli. Ha detto che è accaduto in tutto il settentrione.»

«Sì.» Annuì, e proruppe in una risata secca che lo scosse. «E solo gli antichi hanno avuto la forza di sopravvivere, di ereditare la sofferenza che soltanto l’immortalità può alimentare. Perciò soffriamo. Ma sei stato creato tu. E sei venuto. Ne creerai altri. Ma è giusto farlo? Il Padre e la Madre avrebbero permesso che ci accadesse questo, se non fosse venuto il momento?»

«Ma chi sono il Padre e la Madre?» chiesi. Sapevo che quando parlava della Madre non si riferiva alla terra.

«I primi di noi», rispose. «Coloro dai quali discendiamo tutti.»

Cercai di penetrare i suoi pensieri, di valutarne la verità; ma si accorse di ciò che stavo facendo, e la sua mente si chiuse come un fiore al crepuscolo.

«Vieni con me», disse. E si avviò a passo scalpicciante lungo un corridoio ugualmente decorato.

Intuivo che eravamo in un luogo ancora più antico, costruito prima del tempio che avevamo appena lasciato. Non so come lo sapessi. Il freddo che hai sentito qui sui gradini dell’isola, là era assente. Sono sensazioni che non si provano in Egitto. Là si sente qualcosa d’altro: una presenza che vive nell’aria stessa.

Ma, come procedevamo, c’erano altre testimonianze palpabili di una grande antichità. I dipinti sulle pareti erano più vecchi, i colori più fiochi, e in certi punti l’intonaco s’era scrostato. Lo stile era cambiato. I capelli neri delle figure erano più lunghi e abbondanti, e sembrava che tutto fosse più beffo, più ricco di luce e di complessità.

In lontananza l’acqua gocciolava sulla pietra. Il suono aveva un’eco canora nel corridoio. Sembrava che le pareti avessero catturato la vita in quelle figure delicate e dipinte teneramente; sembrava che la magia tentata più volte dagli antichi artisti religiosi avesse un suo nucleo ardente di potere. Sentivo sussurri di vita dove non c’erano. Percepivo la grande continuità della storia anche se nessuno ne era consapevole.

L’essere al mio fianco si soffermò mentre guardavo le pareti. Mi fece il gesto di seguirlo oltre una porta: entrammo in una lunga camera rettangolare coperta interamente di geroglifici. Era come trovarmi racchiuso in un manoscritto. E vidi due vecchissimi sarcofagi egizi sistemati testa contro testa sul fondo.

Erano bare modellate in modo da ripetere i contorni delle mummie per cui erano state fatte, e dipinte per rappresentare i morti con le facce d’oro martellato e gli occhi di lapislazzulo.

Alzai la candela. Con un grande sforzo, la mia guida sollevò i coperchi dei sarcofagi e li lasciò cadere perché potessi vedere all’interno.

Vidi quelli che in un primo momento sembravano corpi: ma quando mi accostai mi resi conto che erano mucchi di cenere in forma umana. Non restava null’altro se non una zanna bianca, una scheggia d’osso.