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«Il sangue non può riportarli in vita», disse la mia guida. «Non possono risorgere. Coloro che potevano levarsi si sono levati, e dovranno passare secoli prima che possiamo guarire, prima che conosciamo la fine della sofferenza.»

Prima che richiudesse i sarcofagi, vidi che l’interno dei coperchi era annerito dal fuoco che aveva divorato i due. Non mi dispiacque quando li richiuse.

La mia guida si voltò e si mosse di nuovo verso la porta. La seguii con la candela, ma si soffermò e guardò le bare dipinte.

«Quando le ceneri verranno disperse», disse, «le loro anime saranno libere.»

«E allora perché non le disperdi?» chiesi, sforzandomi di non tradire la mia angoscia.

«Dovrei farlo?» mi chiese. La carne bruciata intorno agli occhi si dilatò. «Credi che dovrei farlo?»

«E lo chiedi?» dissi.

Proruppe di nuovo in una risata secca che sembrava irradiare sofferenza, e mi precedette lungo il corridoio, verso una camera illuminata. Era una biblioteca: alcune candele rivelavano i ripiani con le pergamene e i papiri.

Naturalmente mi rallegrai perché una biblioteca era qualcosa che potevo comprendere. Era l’unico luogo umano in cui ritrovavo ancora in parte la razionalità di un tempo.

Ma rimasi sbalordito nel vedere un altro, un altro di noi, seduto al tavolo e con gli occhi sul pavimento.

Non aveva capelli; e, sebbene fosse tutto nero come la pece, la pelle era ben modellata e lucida, come oleata. I piani del volto erano belli, la mano posata sul gonnellino bianco era piegata con eleganza, i muscoli del petto nudo erano ben definiti.

Si voltò a guardarmi. Qualcosa passò immediatamente tra noi, qualcosa più silenzioso del silenzio, come può avvenire nella nostra specie. «Questo è l’Anziano», disse l’essere che mi aveva condotto lì. «E puoi vedere tu stesso come ha resistito al fuoco. Ma non parla. Non ha parlato da quando è accaduto. Tuttavia sa sicuramente dove sono il Padre e la Madre e perché è stato permesso che questo avvenisse.» L’Anziano continuò a guardare davanti a sé. Ma sul suo volto c’era una strana espressione sarcastica, un po’ divertita e un po’ sprezzante. «Già prima del disastro», continuò l’altro, «l’Anziano non ci parlava spesso. Il fuoco non l’ha cambiato, non l’ha reso più ricettivo. Siede in silenzio, ed è sempre più simile alla Madre e al Padre. Ogni tanto legge. Ogni tanto danza. Parla con i mortali per le vie di Alessandria, ma non con noi. Non ha nulla da dirci. Ma sa… sa perché ci è accaduto.

«Lasciami con lui», dissi.

Avevo la sensazione che tutti gli esseri hanno in situazioni del genere: io riuscirò a farlo parlare. Riuscirò a farmi dire qualcosa, anche se non c’è riuscito nessun altro. Ma non era la semplice vanità a spronarmi. Era quell’essere che si era presentato nella camera da letto della mia casa, ne ero sicuro. Era lui che s’era fermato a osservarmi dalla soglia.

E avevo percepito qualcosa nel suo sguardo. Qualcosa… intelligenza, interesse, riconoscimento di una conoscenza comune.

E sapevo che portavo con me le possibilità di un mondo diverso, ignoto al Dio della Foresta e anche all’essere debole e ferito che, al mio fianco, guardava l’Anziano con occhi disperati.

L’essere debole si ritirò come io avevo chiesto. Mi accostai al tavolo e fissai l’Anziano.

«Che cosa devo fare?» chiesi in greco.

Alzò bruscamente lo sguardo verso di me, e vidi l’intelligenza sul suo volto,

«Ha senso continuare a interrogarti?» chiesi.

Avevo scelto il tono con cura. Non aveva nulla di formale e di reverente: era familiare in massimo grado.

«Che cosa cerchi?» chiese all’improvviso lui in latino, freddamente. Piegò verso il basso gli angoli della bocca, in un brusco atteggiamento di sfida.

Per me fu un sollievo passare al latino.

«Hai udito ciò che ho detto all’altro», risposi nello stesso modo informale. «Come sono stato creato dal Dio della Foresta nella terra dei celti e come ho ricevuto l’ordine di scoprire perché gli dèi sono morti tra le fiamme.»

«Tu non vieni per conto degli Dèi della Foresta!» fu la replica sarcastica come prima. Non aveva alzato la testa; si limitava a guardarmi e i suoi occhi erano ancora più sprezzanti.

«È vero e non è vero», dissi. «Se noi possiamo perire così, vorrei sapere il perché. Ciò che è accaduto una volta può ripetersi. E vorrei sapere se siamo davvero dèi; e se lo siamo, quali sono i nostri doveri verso l’uomo? La Madre e il Padre sono esseri reali o sono leggende? Com’è iniziato tutto questo? Vorrei saperlo, naturalmente.»

«Per caso», disse lui.

«Per caso!» Mi tesi. Credevo di aver capito male.

«È incominciato per caso», ripeté con freddezza scostante, quasi a sottintendere che la domanda era assurda. «Quattromila anni fa, per caso, e da allora è sempre stato inserito nella magia e nella religione.»

«Mi stai dicendo la verità?»

«Perché non dovrei? Perché dovrei proteggerti dalla verità? Perché dovrei prendermi il disturbo di mentirti? Non so neppure chi sei e non m’importa.»

«Allora mi spiegherai che cosa intendi quando affermi che è iniziato per caso», insistetti.

«Non so. Forse posso farlo e forse no. Ho parlato di più in questi ultimi momenti di quanto avessi fatto per anni. La storia dell’incidente potrebbe non essere più vera dei miti che deliziano gli altri. Gli altri hanno sempre scelto i miti. È ciò che vuoi veramente, no?» La voce divenne più alta. Si alzò un poco dalla sedia come sospinto dalla collera.

«Una storia della nostra creazione, analoga alla Genesi degli ebrei, alle leggende di Omero, alle farneticazioni dei poeti latini Ovidio e Virgilio… una grande palude splendente di simboli dalla quale sarebbe scaturita la vita stessa.» Era in piedi e quasi gridava. Le vene spiccavano sulla fronte nera, la mano era stretta a pugno. «È quel genere di fole che riempiono i documenti di queste stanze e affiorano in frammenti dagli inni e dagli incantesimi. Vuoi ascoltarle? Sono vere quanto tutto il resto.»

«Dimmi ciò che vuoi», risposi. Cercavo di restare calmo. Il volume della sua voce mi feriva le orecchie. E sentii qualcosa muoversi nelle stanze vicine. C’erano altri esseri che si aggiravano, simili a quello che mi aveva condotto fin lì.

«E potresti incominciare», dissi in tono acido, «confessando che sei venuto nella mia casa, qui in Alessandria. Sei stato tu a guidarmi fino a questo luogo. Perché l’hai fatto? Per rimproverarmi? Per maledirmi solo perché ti chiedo com’è incominciato?»

«Calmati.»

«Potrei dire lo stesso a te.»

Mi squadrò, intento, e sorrise. Allargò le mani in un gesto di saluto o di offerta, quindi alzò le spalle.

«Voglio che tu mi parli del caso», dissi. «Ti pregherei di farlo, se pensassi che può servire a qualcosa. Che cosa posso fare per convincerti?»

La sua faccia subì diverse trasformazioni sensazionali. Percepivo i suoi pensieri ma non li udivo, sentivo una grande tensione. E quando riprese a parlare, la sua voce si era fatta grave come se lui lottasse con un’angoscia che lo soffocava.

«Ascolta la nostra vecchia storia», disse l’Anziano. «Il buon dio Osiride, primo faraone d’Egitto nelle epoche anteriori all’invenzione della scrittura, fu assassinato dai malvagi. E quando la consorte, Iside, raccolse le parti del suo corpo, Osiride divenne immortale e regnò sulla terra dei morti. È il reame della luna e della notte; e a lui venivano portate le vittime per la grande dea, e beveva da queste vittime. Ma i sacerdoti cercarono di rubargli il segreto dell’immortalità; perciò il suo culto divenne segreto, i suoi templi furono noti solo ai fedeli che lo proteggevano dal dio del sole, il quale in ogni momento avrebbe potuto cercare di annientarlo con i suoi raggi. Ma puoi vedere la verità nella leggenda. L’antico re scoprì qualcosa, o meglio fu vittima di un avvenimento spiacevole, e divenne una creatura innaturale, con un potere che poteva essere usato da coloro che gli stavano intorno per causare mali incalcolabili; perciò ne fece un culto, cercando di frenarlo con obblighi e cerimonie e di riservare il Sangue Potente a coloro che potevano usarlo per scopi di magia bianca e non per altro. Perciò esistiamo noi.»