«Ma già prima dei miei tempi, mille anni fa, questa era una storia vecchissima e incoerente. Gli dèi della luna avevano governato in Egitto era circa tremila anni e la religione era stata attaccata più volte.
«Quando i sacerdoti egizi si votarono al dio del sole Amon Ra, aprirono le cripte del dio della luna e lasciarono che il sole lo bruciasse. Molti dei nostri furono annientati. Lo stesso avvenne quando i primi guerrieri giunsero in Grecia e aprirono i santuari e distrussero ciò che non capivano.
«Ora il farneticante oracolo di Delfì regna dove un tempo regnavamo noi, e al nostro posto stanno le statue. La nostra ultima ora è venuta nei boschi settentrionali dai quali provieni, tra coloro che bagnano ancora i nostri altari con il sangue dei colpevoli, e nei piccoli villaggi dell’Egitto dove uno o due sacerdoti hanno cura del dio nella cripta e lasciano che i fedeli gli portino i malfattori, perché non possono prendere gli innocenti senza destar sospetti e ci sono sempre malfattori e stranieri a disposizione. E nelle giungle dell’Africa, presso le rovine di città antichissime che nessuno ricorda, anche là noi siamo ancora obbediti.
«Ma la nostra storia è popolata da racconti che parlano degli irregolari… i Bevitori di Sangue che non cercano la guida della dea e hanno sempre usato i loro poteri come hanno voluto.
«In Roma e in Atene e in tutte le città dell’Impero, vivono coloro che non rispettano le leggi e usano i poteri per i propri fini.
«Molti sono morti orrendamente nelle fiamme e nel caldo come gli dèi nelle foreste e nei santuari; e, se qualcuno è sopravvissuto, probabilmente non sa neppure perché è stato colpito dalla fiamma assassina, e che la Madre e il Padre sono stati esposti al sole.»
L’Anziano taceva.
Studiava la mia reazione. Nella biblioteca c’era silenzio e, se gli altri si aggiravano al di là delle pareti, non li sentivo più. «Non credo a una sola parola», dissi. Mi fissò per un momento, stupefatto, e poi scoppiò a ridere.
Furioso, lasciai la biblioteca, attraversai le camere del tempio, percorsi le gallerie e uscii in strada.
11.
Era molto inconsueto, da parte mia, andarmene infuriato e abbandonare tutto. Non avevo mai agito così quando ero mortale. Ma, come ho detto, ero sull’orlo della follia, la prima follia che molti di noi soffrono, specialmente coloro che sono stati reclutati con la forza. Tornai nella mia casetta presso la grande biblioteca di Alessandria e mi sdraiai sul letto come se potessi veramente addormentarmi lì e sfuggire a tutto.
«È assurdo», mormorai.
Ma, più pensavo a quel racconto, e più aveva senso. Aveva senso che qualcosa nel mio sangue mi spingesse a bere altro sangue. Aveva senso che potenziasse tutte le sensazioni e continuasse a far funzionare il mio corpo, divenuto ormai un’imitazione del corpo umano, anche quando avrebbe dovuto fermarsi. E aveva senso che quella «cosa» non avesse una mente ma fosse comunque una potenza, un’organizzazione di forza con un suo desiderio di vivere.
E poi aveva senso che tutti noi fossimo connessi alla Madre e al Padre, perché questa «cosa» era spirituale e non aveva limiti corporei se non quelli dei singoli organismi di cui aveva assunto il controllo. La «cosa» era la vita e noi eravamo i fiori sparsi su grandi distanze, ma collegati dai tralci intrecciati che si estendevano su tutto il mondo.
Perciò noi dèi potevamo udirci così bene l’un l’altro, perciò sapevo che gli altri erano in Alessandria, prima ancora che mi cercassero. Perciò potevano venire a scovarmi in casa mia e potevano condurmi alla porta segreta.
Sì. Forse era vero. Ed era effettivamente un caso, la fusione di una forza senza nome e di un corpo e di una mente umani per creare l’essere nuovo, come aveva detto l’Anziano.
Tuttavia… non mi piaceva.
Mi ribellavo perché, se ero qualcosa, io ero un individuo, un essere particolare con un forte senso dei miei diritti e delle mie prerogative. Non potevo accettare d’essere l’ospite di un’entità estranea. Ero ancora Marius, qualunque cosa mi fosse stata fatta.
Alla fine mi rimase un solo pensiero: se ero legato alla Madre e al Padre, allora dovevo vederli, dovevo assicurarmi che fossero al sicuro. Non potevo vivere con il pensiero di dover morire da un momento all’altro a causa di un’alchimia che non potevo controllare né comprendere.
Ma non ritornai al tempio sotterraneo. Trascorsi le notti successive saziandomi di sangue fino a sommergere i miei pensieri dolorosi. E nelle prime ore mi aggiravo nella grande biblioteca di Alessandria leggendo come avevo sempre fatto.
La pazzia si dileguò parzialmente. Smisi di avere nostalgia della mia famiglia mortale, smisi di essere in collera con l’essere maledetto del tempio sotterraneo e pensai piuttosto alla forza nuova che possedevo. Sarei vissuto per secoli; avrei conosciuto le risposte a ogni interrogativo. Sarei stato la coscienza continuativa delle cose, mentre il tempo passava. E, finché uccidevo soltanto i malfattori, potevo sopportare la sete di sangue e goderne. E, quando fosse venuto il momento, avrei creato i miei compagni.
Ora che cosa restava? Tornare dall’Anziano e scoprire dove aveva nascosto la Madre e il Padre. E vederli con i miei occhi. E fare ciò che aveva minacciato l’Anziano, seppellirli così profondamente nella terra che nessun mortale avrebbe potuto trovarli ed esporli alla luce.
Era facile pensarlo, era facile immaginare che fosse tanto semplice.
Cinque notti dopo che avevo lasciato l’Anziano, quando tutti questi pensieri avevano avuto tempo di svilupparsi in me, riposavo sul mio letto con le lampade che brillavano attraverso i tendaggi. Nella luce dorata, ascoltai i suoni di Alessandria addormentata, e mi abbandonai ai sogni splendenti del dormiveglia. Mi chiesi se l’Anziano sarebbe tornato da me, deluso perché non ero ricomparso… e, quando il pensiero divenne nitido, mi accorsi che ancora una volta qualcuno stava sulla soglia.
Qualcuno mi fissava. Lo sentivo. Per vederlo, dovevo solo girare la testa. Allora avrei vinto la partita con l’Anziano. Avrei detto: «Sei venuto qui spinto dalla solitudine e dalla disillusione e ora vuoi dirmi qualcosa di più, vero? Perché non torni al tempio, e non siedi in silenzio per ferire i tuoi compagni sofferenti, i confratelli delle ceneri?» Naturalmente, non gli avrei parlato così. Ma lo pensavo e lasciavo che udisse quei pensieri… se era lui, là sulla soglia.
Il visitatore non se ne andò.
Girai lentamente gli occhi in direzione della porta. Era una donna. Una magnifica egizia, splendidamente ingioiellata e abbigliata come le antiche regine in una veste di lino pieghettato, con i capelli neri che le scendevano sulle spalle, intrecciati con fili d’oro. Irradiava una forza immensa, un senso invisibile e imperioso della sua presenza che dominava la piccola camera insignificante.
Mi sollevai a sedere e scostai i tendaggi, e le lampade della stanza si spensero. Vidi il fumo che saliva nel buio, spire grigie come serpenti che ascendevano verso il soffitto e scomparivano. Lei era ancora lì e la poca luce rimasta definiva il volto privo d’espressione, scintillava sui monili che le cingevano il collo e nei grandi occhi obliqui. In silenzio mi disse:
Marius, portaci lontano dall’Egitto.
E scomparve.
Il mio cuore batteva irrefrenabilmente. Uscii in giardino a cercarla. Scavalcai il muro e mi fermai in ascolto nella via deserta.
Cominciai a correre verso il quartiere più vecchio, dove avevo trovato la porta. Intendevo scendere nel tempio, trovare l’Anziano e dirgli che doveva condurmi da lei. L’avevo vista: s’era mossa, aveva parlato, era venuta da me! Ero in delirio; ma quando arrivai alla porta compresi che non era necessario scendere. Sapevo che se fossi uscito dalla città, nel deserto, l’avrei trovata. Mi stava già guidando al luogo in cui era.