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Nell’ora che seguì adoperai la forza e la velocità che avevo scoperto in me nelle foreste della Gallia e da allora non avevo più usato. Lasciai la città, mi avventurai dove l’unica luce era quella delle stelle, e camminai finché giunsi a un tempio in rovina; e là cominciai a scavare nella sabbia. Una squadra di mortali avrebbe impiegato diverse ore per scoprire la botola; ma io la trovai molto presto e la sollevai… i mortali non ci sarebbero riusciti.

Le scale tortuose e i corridoi che seguii non erano illuminati. Mi rammaricavo di non aver portato una candela, di essenni lasciato travolgere dall’apparizione della Madre al punto che mi ero precipitato a seguirla come se ne fossi innamorato.

«Aiutami, Akasha», mormorai. Tesi le mie mani davanti a me e mi sforzai di non cedere alla paura mortale della tenebra, nella quale ero cieco come un uomo comune.

Le mie mani toccarono qualcosa di duro. Mi fermai per riprendere fiato e cercai di dominarmi. Poi le mie dita si mossero, e sentii qualcosa che sembrava il petto d’una statua… le spalle, le braccia. Ma non era una statua: era fatta di qualcosa di più elastico della pietra. E, quando la mia mano toccò il viso, mi accorsi che le labbra erano un po’ più morbide del resto, e la ritrassi.

Sentivo i battiti del mio cuore, ed ero sopraffatto dall’umiliazione della vigliaccheria. Non osavo pronunciare il nome di Akasha. Sapevo di aver toccato una forma maschile. Era Enkil.

Chiusi gli occhi, cercando di riordinare i pensieri e di formulare un piano d’azione che non fosse fuggire come un pazzo. Udii uno sfrigolio secco e, attraverso le palpebre chiuse, vidi il fuoco.

Quando aprii gli occhi vidi una torcia accesa e fissata al muro dietro di lui, e la sagoma scura che torreggiava davanti a me. Gli occhi erano animati e mi guardavano con fermezza: le pupille nere erano alonate da una luce grigia. A parte questo, era senza vita, con le mani abbandonate lungo i fianchi. Era ricco di ornamenti come la Madre, indossava la veste splendida dei faraoni e i capelli erano intrecciati con fili d’oro. La pelle era abbronzata al pari di quella di Akasha, come aveva detto l’Anziano. Era l’incarnazione della minaccia, nella sua immobilità.

Nella camera spoglia, dietro di lui, la Madre sedeva su una panca di pietra, con la testa inclinata, le braccia abbandonate come se fosse un corpo senza vita. La veste di lino era sporca di sabbia, i sandali ne erano incrostati. Gli occhi erano fissi e vacui, in un atteggiamento di morte.

E lui, come una sentinella di pietra in una tomba reale, mi bloccava il cammino.

Non udivo nessun messaggio, come non ne hai uditi tu quando ti ho accompagnato nel loro sacrario, qui sull’isola. E pensavo che sarei morto di paura.

Eppure c’era la sabbia sui piedi e sulla veste della Madre! Era venuta da me! Era venuta veramente!

Ma qualcuno era entrato nel corridoio dietro di me, qualcuno avanzava. Quando mi voltai vidi uno degli ustionati… era uno scheletro con le gengive nere scoperte, le zanne affondate nella lucida pelle nera del labbro inferiore.

Trattenni a stento un’esclamazione nel vedere le membra ossute, le braccia che tremavano a ogni passo. Veniva verso di noi, ma sembrava che non mi vedesse. Tese le mani e spinse Enkil.

«No, no, indietro nella camera» sussurrò con voce bassa e spezzata. «No, no!» Ogni sillaba pareva costargli tutte le sue forze. Le braccia rinsecchite spingevano la figura, ma inutilmente.

«Aiutami!» mi disse. «Si sono mossi. Perché? Falli tornare indietro. Più si spostano e più è difficile riportarli indietro.»

Fissai Enkil e provai l’orrore che tu hai provato nel vedere la statua viva, apparentemente priva della capacità o della volontà di muoversi. E lo spettacolo divenne ancora più orrendo perché l’essere annerito urlava e cercava di graffiare Enkil, ma senza poter far nulla. E la vista dell’essere che avrebbe dovuto essere morto e che si sfiniva così, e dell’altro essere divino e magnifico che stava immobile, divenne per me insopportabile.

«Aiutami!» ripeté l’ustionato. «Riportalo nella camera. Riportali dove debbono stare.»

Come potevo? Come potevo mettere le mani su quel dio, come potevo presumere di spingerlo dove non voleva andare?

«Andrà tutto bene, se mi aiuterai», disse l’essere. «Staranno insieme e saranno in pace. Spingilo. Su. Spingilo! Oh guarda lei, guarda cosa le è accaduto. Guarda.»

«Sta bene, maledizione!» bisbigliai. Sopraffatto dalla vergogna, appoggiai le mani su Enkil e tentai di spingerlo. Ma era impossibile. Lì la mia forza non contava nulla, e l’ustionato diventava sempre più irritante con le sue vane farneticazioni.

Ma ansimò, alzò le braccia scheletrite e indietreggiò.

«Che cos’hai?» chiesi, resistendo all’impulso di fuggire urlando. E poi vidi.

Akasha era apparsa dietro Enkil. Era ritta e mi guardava al di sopra della spalla del consorte. Vidi le sue dita cingergli le braccia muscolose. Gli occhi dalla bellezza vitrea erano vacui come prima. Ma lo faceva muovere: e vidi i due esseri che camminavano, lui che indietreggiava lentamente con i piedi che si staccavano appena dal suolo, lei nascosta dallo sposo tanto che vedevo soltanto le sue mani, la sommità della testa e gli occhi.

Battei le palpebre cercando di schiarirmi la mente.

Erano seduti entrambi sulla panca, insieme, e avevano ripreso la posa in cui li hai visti sull’isola stanotte.

L’essere ustionato era prossimo al collasso. Era caduto in ginocchio, e non era necessario che mi spiegasse il perché. Li aveva trovati molte volte in posizioni diverse, ma non li aveva mai visti muoversi. E non aveva mai visto lei come l’aveva vista poco prima.

Io lo sapevo. Era venuta da me. Ma a un certo punto il mio orgoglio e l’esaltazione lasciarono il posto a ciò che dovevo provare: reverenza schiacciante e angoscia.

Mi misi a piangere. Piansi irrefrenabilmente come non avevo fatto da quando ero con il vecchio dio nella foresta ed ero morto ed era discesa su di me questa maledizione, questa grande maledizione luminosa e potente. Piansi come hai pianto tu quando li hai visti per la prima volta, piansi per la loro immobilità e il loro isolamento, in quel piccolo luogo orribile dove fissavano il nulla e sedevano nell’oscurità mentre sopra di loro l’Egitto agonizzava.

La dea, la madre o la cosa, o quello che era, la progenitrice silenziosa e impotente mi guardava. Non era un’illusione. I grandi occhi splendenti frangiati dalle ciglia erano fissi su di me. Udii di nuovo la sua voce: ma non aveva l’antica potenza, era soltanto un pensiero che andava oltre il linguaggio, nella mia mente.

Portaci lontano dall’Egitto, Marius. L’Anziano intende distruggerci. Proteggici, Marius, o periremo qui.

«Vogliono sangue?» gridò l’ustionato. «Si erano mossi perché volevano un sacrificio?

«Vai a procurare loro le vittime», dissi.

«Non posso. Non ne ho la forza. E non vogliono donarmi il loro sangue risanatore. Se me ne concedessero qualche goccia, la mia carne bruciata guarirebbe, il sangue dentro di me potrebbe rifiorire, e porterei loro vittime splendide…»

Ma c’era insincerità in quel discorsetto, perché loro non desideravano più altri sacrifìci.

«Prova ancora a bere il loro sangue», dissi. Era egoistico da parte mia. Volevo vedere cosa sarebbe accaduto.

Eppure, con mia grande umiliazione, l’ustionato si avvicinò, si chinò e pianse e supplicò che gli donassero il loro sangue potente, il loro sangue antico perché le ustioni potessero guarire più in fretta, e disse che era innocente, e non era stato lui a lasciarli sulla sabbia, era stato l’Anziano… e per pietà, li implorò di permettergli di bere alla fonte originale.