L’Anziano sapeva come usare la sua forza sovrannaturale. Socchiuse gli occhi e s’irrigidì. Irradiava pericolo.
Si avvicinò, preceduto dalle sue intenzioni. In un lampo mi alzai e cercai di parare i suoi colpi. Mi afferrò per la gola e mi scagliò contro il muro di pietra, fratturandomi le ossa della spalla e del braccio destro. In un momento di sofferenza lancinante compresi che mi avrebbe schiacciato la testa e fracassato le membra, e quindi mi avrebbe versato addosso l’olio della lampada e mi avrebbe bruciato, e io sarei sparito dalla sua eternità personale come se non avessi mai conosciuto quei segreti o non avessi mai osato intromettermi.
Lottai come prima non avrei potuto fare. Ma il mio braccio era una fonte continua di sofferenza e la forza dell’anziano stava alla mia come la mia potrebbe stare alla tua. Ma, anziché cercare di strappar via le sue mani che mi stringevano il collo e di liberarmi la gola come sarebbe stato istintivo, gli premetti fulmineamente i pollici negli occhi. Sebbene il braccio bruciasse per il dolore, usai tutta la mia forza per spingergli gli occhi all’interno della testa.
Mi lasciò, urlando. Il sangue gli grondava sulla faccia. Corsi via, verso la porta del giardino. Non potevo ancora respirare, per la lesione che mi aveva causato alla gola; e, mentre mi stringevo il braccio spezzato, vidi con la coda dell’occhio cose che mi confusero… un grande zampillo di terra che saliva nel giardino e saturava l’aria come fumo. Urtai contro lo stipite e persi l’equilibrio come se mi avesse spostato il vento. Mi voltai e vidi l’Anziano che avanzava con gli occhi che scintillavano, sebbene fossero affondati nella testa. Mi maledisse in egiziano e gridò che sarei finito nell’aldilà con i demoni.
Poi la sua faccia divenne una maschera di paura. Si fermò di colpo, con un’espressione allarmata che era quasi comica.
E vidi ciò che aveva veduto… la figura di Akasha che mi stava passando accanto sulla destra. Le bende erano strappate intorno alla testa e le braccia erano libere. Era coperta di terra sabbiosa. I suoi occhi erano inespressivi come sempre; e avanzava lentamente verso l’Anziano, che non poteva muoversi per trovare scampo.
L’Anziano cadde in ginocchio farfugliando in egiziano, dapprima con toni di stupore e poi con terrore incoerente. Akasha continuò ad avvicinarsi lasciando una scia nella sabbia; le bende le cadevano di dosso via via che ogni passo le scuoteva con maggiore violenza. L’Anziano si voltò e cadde bocconi e cominciò a strisciare come se, con una forza sconosciuta, lei gli impedisse di alzarsi in piedi. Sicuramente era ciò che faceva Akasha, perché alla fine l’Anziano rimase prono, con i gomiti sollevati, incapace di muoversi.
Lentamente, lei gli posò un piede sull’interno del ginocchio destro e lo schiacciò. Il sangue scaturì sotto il suo calcagno. Con il secondo passo gli stritolò il bacino mentre l’Anziano urlava come un animale e il sangue fiottava dalle parti menomate. Poi Akasha mosse un passo sulla spalla dell’Anziano e un altro sulla testa, che esplose sotto il suo peso come una ghianda. L’urlo cessò. Il sangue sgorgava dai resti frementi.
Akasha si voltò. La sua espressione non era cambiata, era indifferente persino al testimone solitario e inorridito che si stringeva contro il muro. Calpestò i resti con lo stesso passo lento e agevole, schiacciandoli completamente.
Ciò che restava non era neppure il contorno dì un uomo, bensì una poltiglia sanguinolenta; tuttavia luccicava e ribolliva, e sembrava contrarsi e gonfiarsi come se avesse ancora vita.
Ero impietrito: sapevo che la vita c’era ancora. Era, questo, un possibile significato dell’immortalità.
Ma Akasha s’era fermata. Si girò verso sinistra così lentamente che sembrò una statua ruotante su un perno. Alzò la mano e la lampada accanto al letto si sollevò in aria e cadde sulla massa sanguinante. La fiamma dilagò in fretta quando si sparse l’olio.
L’Anziano bruciò come grasso; le fiamme danzavano da un’estremità della massa scura all’altra, il sangue pareva alimentare il fuoco, il fumo era acre ma aveva soltanto il lezzo dell’olio.
Ero in ginocchio, con la testa contro lo stipite. Stavo per perdere i sensi. Lo guardavo bruciare. Guardavo Akasha che stava ritta al di là delle fiamme: il viso bronzeo non rivelava il minimo segno d’intendimento, di trionfo o di volontà.
Trattenni il respiro in attesa che girasse lo sguardo verso di me. Non lo fece. E, mentre il momento si protraeva e il fuoco si spegneva, compresi che aveva smesso di muoversi. Era tornata allo stato di silenzio e d’immobilità assoluti che tutti gli altri si attendevano da lei.
La stanza era buia. Il fuoco s’era spento. L’odore dell’olio bruciato mi nauseava. Akasha era simile a un fantasma egizio nelle bende lacere, immota davanti alle braci. I mobili dorati luccicavano nel chiarore del cielo e, sebbene fossero di produzione romana, ricordavano gli arredi complessi e delicati di una sepoltura reale.
Mi alzai, e il braccio e la spalla martellarono dolorosamente. Sentivo il sangue che affluiva per risanarli, ma la lesione era grave. Non sapevo quanto tempo avrebbe impiegato per guarire.
Naturalmente sapevo che se avessi bevuto il sangue di Akasha la guarigione sarebbe stata molto più rapida, forse istantanea; e allora avremmo potuto partire da Alessandria quella notte stessa. Avrei potuto portarla lontano dall’Egitto.
Poi compresi che era lei a dirmelo. Le parole lontane mi sfioravano, carezzevoli.
E le risposi: «Sono stato in tutto il mondo e ti porterò in luoghi sicuri.» Ma forse quel dialogo esisteva solo nella mia immaginazione. Com’era opera mia la tenera sensazione d’amore per lei. E stavo impazzendo: sapevo che l’incubo non avrebbe avuto fine se non nel fuoco, e che la vecchiaia naturale e la morte non avrebbero mai placato le mie paure e le mie sofferenze, come un tempo mi aspettavo.
Non aveva più importanza. Era importante che fossi solo con lei: e in quel buio sembrava una donna umana, una giovane donna divina, piena di vitalità e di idee e sogni meravigliosi.
Mi avvicinai. Mi sembrò che fosse una creatura flessuosa e arrendevole, e che dentro di me vi fosse una conoscenza di lei che attendeva di essere ricordata e apprezzata. Tuttavia avevo paura. Poteva fare a me ciò che aveva appena fatto all’Anziano. Ma era assurdo. Non l’avrebbe fatto. Adesso ero il suo custode e non avrebbe mai permesso che qualcuno mi facesse male. No. Dovevo comprenderlo. Mi avvicinai, mi avvicinai a lei fino a che le mie labbra sfiorarono la sua gola bronzea. E tutto fu deciso quando sentii sulla nuca la pressione fredda e decisa della sua mano.
13.
Non tenterò di descrivere l’estasi. La conosci. L’hai conosciuta quando hai preso il sangue di Magnus. L’hai conosciuta quando io ti ho dato il sangue al Cairo. La conosci quando uccidi. E sai cosa significa quando ti dico che era simile e tuttavia era mille volte più intensa.
Non vedevo né udivo né sentivo altro che una felicità assoluta, un’assoluta gratificazione.
Tuttavia ero in altri luoghi, altre stanze di molto tempo prima, e c’erano voci che parlavano, c’erano battaglie che venivano perdute. Qualcuno urlava di dolore. Qualcuno gridava parole che conoscevo e non conoscevo: Non capisco. Non capisco. Un grande abisso di tenebra si spalancò e mi giunse l’invito a precipitarvi. E lei sospirò e disse: Non posso più lottare.
Poi mi destai. Ero sul mio letto. Lei era al centro della stanza, immobile come prima. Era notte inoltrata e intorno a noi la città di Alessandria mormorava nel sonno.