Выбрать главу

Fu un trauma vederlo, quando venne ad aprire dopo che avevo bussato alla sua porta.

Sembrava un giovane uscito da un romanzo di Dickens, nella sobria marsina nera. S’era tagliato tutti i riccioli rinascimentali. Il viso eternamente giovane aveva l’innocenza di David Copperfield e l’orgoglio di uno Steerforth… rivelava tutto, tranne la vera natura del suo spirito.

Per un momento una luce fulgida arse in lui mentre mi guardava. Poi fissò le cicatrici che mi coprivano il viso e le mani e disse a voce bassa, quasi compassionevole:

«Entra, Lestat».

Mi prese la mano. Ci addentrammo nella casa che aveva costruito ai piedi della torre di Magnus, un luogo buio e tetro degno di tutti gli orrori byroniani di quella strana epoca.

«Sai, corre voce che tu abbia incontrato la fine in Egitto o in Estremo Oriente», disse in francese colloquiale, con un’animazione che non avevo mai visto in lui. Adesso era abile nel farsi passare per un essere vivente. «Sei scomparso con l’altro secolo, e da allora nessuno ha più sentito parlare di te.»

«E Gabrielle?» chiesi immediatamente. Mi meravigliavo dì non averlo domandato già sulla soglia.

«Nessuno l’ha più vista o ha saputo qualcosa di lei da quando lasciaste Parigi.»

Ancora una volta il suo sguardo mi accarezzò. C’era in lui un’eccitazione appena velata, una febbre che sentivo come il calore del fuoco vicino. Sapevo che stava cercando di leggere nei miei pensieri.

«Che cosa ti è accaduto?» chiese.

Le mie cicatrici lo sconcertavano. Erano troppo numerose e intricate, retaggio di un attacco che avrebbe dovuto segnare la mia morte. Mi sentii sopraffatto da un panico improvviso, dal timore che, nella confusione, gli rivelassi tutto, le cose che molto tempo prima Marius mi aveva proibito di confidare.

Ma fu la storia di Louis e Claudia quella che mi sgorgò dalle labbra, in mezze verità balbettate, con l’omissione di un fatto saliente: che Claudia era soltanto… una bambina.

Parlai brevemente degli anni trascorsi in Louisiana, e dei due che avevano finito per rivoltarsi contro di me come Armand aveva predetto che avrebbero fatto i miei figli. Confessai tutto, senza astuzie né orgoglio, e spiegai che ora avevo bisogno del suo sangue. Sofferenza e sofferenza e sofferenza, spiegargli tutto e sentire che lui rifletteva. Dirgli: sì, avevi ragione. Non è tutto ma, nel complesso, avevi ragione tu.

Era tristezza quella che vedevo sul suo volto? Non era certo trionfo. Senza darlo a vedere, guardava le mie mani tremanti mentre gesticolavo. Attendeva con pazienza quando m’impuntavo e non riuscivo a trovare le parole giuste.

Una piccola infusione del suo sangue avrebbe affrettato la mia guarigione, mormorai. Una piccola infusione mi avrebbe schiarito la mente. Mi sforzai di non essere altezzoso quando gli rammentai che gli avevo dato la torre, e l’oro che aveva usato per costruire la casa, e che ero tuttora proprietario del Teatro dei Vampiri e che sicuramente mi avrebbe fatto quel piccolo favore personale. C’era una sgradevole ingenuità nelle parole che gli dissi, stordito com’ero e debole, assetato e impaurito. Il bagliore del fuoco mi rendeva ansioso. La luce sulle venature dei pannelli di legno della stanza faceva apparire e scomparire facce immaginarie.

«Non voglio stare a Parigi», dissi. «Non voglio disturbare te o la congrega del teatro. Ti chiedo solo questo. Ti chiedo…» Mi sembrò che il coraggio e le parole mi venissero meno.

Trascorse un lungo momento.

«Parlami ancora di questo Louis», disse Armand.

Le lacrime mi salirono agli occhi. Ripetei alcune frasi sciocche sull’indistruttibile umanità di Louis, sulla sua comprensione di tante cose che gli altri immortali non sapevano afferrare. Imprudentemente, dissi ciò che mi veniva dal cuore. Non era stato Louis ad aggredirmi. Era stata la donna, Claudia…

Lo sentii animarsi. Un lieve rossore gli salì sulle guance. «Sono stati visti qui a Parigi», disse a voce bassa. «E lei non è una donna. È una bambina vampira.»

Non ricordo che cosa accadde. Forse cercai di spiegare il mio errore. Forse ammisi che non c’era giustificazione per quanto avevo fatto. Forse tornai allo scopo della mia visita, a ciò di cui avevo bisogno. Ricordo che mi sentivo estremamente umiliato mentre mi conduceva fuori dalla casa, nella carrozza, e mi diceva che dovevo andare con lui al Teatro dei Vampiri.

«Non capisci», dissi. «Non posso andare là. Non voglio che gli altri mi vedano in questo stato. Devi fermare la carrozza. Devi fare ciò che chiedo.»

«No, hai capito male», disse con la voce più tenera. Eravamo già nelle affollate vie parigine. Non vedevo la città che ricordavo. Questa era un incubo, una metropoli di ruggenti treni a vapore e di giganteschi boulevard di cemento. Il fumo e il sudiciume dell’epoca industriale non mi erano apparsi mai tanto disgustosi come lì, nella Ville Lumière.

Ricordo vagamente che Armand mi fece scendere dalla carrozza e mi sospinse verso l’ingresso del teatro. Che cos’era, quell’enorme edificio? Ed era il Boulevard du Temple? E poi la discesa nell’orrenda cantina piena di bruttissime copie dei quadri più sanguinosi di Goya e Bruegel e Bosch.

E infine l’inedia, mentre giacevo sul pavimento di una cella di mattoni, incapace persino di lanciare maledizioni, e l’oscurità piena delle vibrazioni degli omnibus e dei tram di passaggio, spezzate spesso dallo stridore lontano delle ruote di ferro.

A volte, nel buio, scoprivo una vittima mortale. Ma la vittima era morta. Sangue freddo, nauseante. Il modo peggiore di nutrirsi, steso su un cadavere viscido per succhiare ciò che restava.

E poi Armand apparve, immobile nell’ombra, immacolato nella camicia bianca e nell’abito di lana nera. Parlò sottovoce di Louis e Claudia, e disse che vi sarebbe stato una specie di processo. S’inginocchiò vicino a me, dimenticando per un momento di essere umano… il giovane gentiluomo in quel posto umido e lurido. «Dichiarerai davanti agli altri che è stata lei», disse. E gli altri, i nuovi, vennero alla porta per guardarmi a uno a uno.

«Procurategli i vestiti», disse Armand. Mi teneva una mano sulla spalla. «Dev’essere presentabile, il nostro signore perduto», continuò. «È sempre stata sua abitudine.»

Risero quando chiesi di parlare con Eleni o Félix o Laurent. Non conoscevano i nomi. Gabrielle… non significava nulla.

E dov’era Marius? Quanti paesi e fiumi e montagne stavano tra noi? Poteva udire e vedere tutto ciò che accadeva?

Di sopra, nel teatro, gli spettatori mortali, come pecore sospinte in un recinto, si muovevano rumorosamente sulle scale e sui pavimenti di legno.

Sognai di andarmene, di tornare nella Louisiana e di lasciare che il tempo compisse la sua opera inevitabile. Sognai di nuovo la terra, le sue fresche profondità che avevo conosciuto per breve tempo al Cairo. Sognai Louis e Claudia, ed eravamo insieme. Miracolosamente, Claudia era diventata una donna bellissima e diceva ridendo: «Vedi, sono venuta in Europa per scoprire come divenire così!»

E temevo che non mi sarebbe mai stato permesso di uscire, che sarei rimasto imprigionato come gli affamati sotto il Cimitero degli Innocenti, temevo di aver commesso un errore fatale. Balbettavo e piangevo e cercavo di parlare ad Armand. Poi mi accorsi che Armand non c’era. Se era venuto, se n’era andato in fretta. Ero preda delle illusioni.

E la vittima, la vittima calda… «Dammela, ti prego…» E Armand rispondeva:

«Dirai ciò che ti ho detto di dire».

Era un tribunale di mostri, demoni dalla faccia bianca che gridavano accuse, Louis che implorava disperatamente, Claudia che mi fissava muta; e io dicevo sì, è stata lei, sì, e poi maledicevo Armand che mi spingeva di nuovo nell’ombra e il suo volto innocente era radioso come sempre.

«Hai fatto bene, Lestat. Hai fatto bene.»