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Doveva essere un’illusione, la figura che era entrata nel salotto e mi guardava mentre giacevo riverso sul pavimento accanto alla porta-finestra sfondata e leggevo Sam Spade alla luce della luna. A parte una cosa. Se avessi evocato un visitatore immaginario, non sarebbe stato Armand.

Gli lanciai un’occhiata e provai un vago senso di vergogna per il mio essere così disgustoso: non ero altro che uno scheletro dagli occhi sporgenti. Ripresi a leggere la storia del Falcone Maltese, muovendo le labbra per pronunciare le battute di Sam Spade.

Quando rialzai lo sguardo, Armand era ancora lì. Forse era la stessa notte o forse la notte seguente, per quel che ne sapevo.

Parlava di Louis. Stava parlando di Louis da un po’ di tempo. E mi resi conto che era una menzogna, quella che mi aveva detto a Parigi. Louis era stato con lui per tutti quegli anni. E Louis mi aveva cercato. Louis era andato nella città vecchia, a cercarmi nei pressi della casa dove avevamo vissuto per molto tempo. E alla fine era venuto lì e mi aveva visto dalle finestre.

Cercai di immaginarlo. Louis, vivo. Louis lì, tanto vicino… e neppure me ne ero accorto.

Risi, credo. Non riuscivo a tenere presente che Louis non era bruciato. Era meraviglioso che fosse ancora vivo. Era meraviglioso che esistessero ancora quella bella faccia, quell’espressione suadente, quella voce tenera e un po’ implorante. Il mio bel Louis era sopravvissuto, non se n’era andato come Claudia e Nicki.

Ma forse era morto. Perché dovevo credere ad Armand? Tornai a leggere al chiaro di luna, rammaricandomi un po’ che le piante del giardino fossero cresciute tanto. Dissi ad Armand che avrebbe fatto bene a uscire e a strappare un po’ di quei rampicanti, dato che era tanto forte. I tralci delle campanule e dei glicini grondavano dai portici e bloccavano la luce della luna, e poi c’erano le vecchie querce nere che stavano lì da quando il giardino era ancora una palude.

Non credo, comunque, d’averlo davvero detto ad Armand.

Ricordo solo vagamente che Armand mi disse che Louis lo lasciava e che lui, Armand, non voleva continuare. Sembrava svuotato. Inaridito. Tuttavia attirava a sé il chiarore lunare, e la sua voce aveva tuttora la vecchia risonanza, le sfumature purissime di dolore.

Povero Armand. E mi avevi detto che Louis era morto. Va’ a scavarti una camera sotto il Cimitero Lafayette, è proprio in fondo alla strada.

Neppure una parola o una risata, ma solo il godimento segreto dell’ilarità. Ricordo un’immagine chiara di Armand, in mezzo alla stanza vuota e sporca, mentre guardava i libri accatastati tutto intorno. La pioggia era filtrata dalle falle nel soffitto e aveva saldato insieme i volumi come mattoni di cartapesta. E lo notai distintamente quando lo vidi ritto contro quello sfondo. Sapevo che tutte le stanze della casa avevano quei muri di libri. Non ci avevo pensato fino a quel momento, quando Armand incominciò a guardarli. Da anni non ero entrato nelle altre camere.

Pare che Armand sia tornato altre volte.

Non lo vedevo; ma lo udivo muoversi nel giardino, mentre mi cercava con la mente, come un raggio di luce.

Louis era partito per l’ovest.

Una volta, mentre giacevo tra i detriti sotto le fondamenta, Armand si avvicinò alla grata e mi sbirciò, e io lo vidi. Sibilò e mi chiamò acchiapparatti.

Sei impazzito… tu che sapevi tutto, tu che ridevi di noi! Sei pazzo e ti nutri di ratti. Sai? Anticamente in Francia chiamavano acchiappalepri voi signorotti di campagna, perché andavate a caccia di lepri per non morire di fame. E adesso cosa sei, qui in questa casa? Un acchiappatopi. Sei pazzo come gli antichi che smettono di ragionare e farneticano al vento! Eppure vai a caccia di ratti, perché sei nato per farlo.

E io risi. Risi e risi. Ricordai i lupi e risi.

«Mi fai sempre ridere», risposi. «Avrei riso di te sotto quel cimitero a Parigi, ma non sembrava che fosse il caso di farlo. E anche quando mi maledicesti e mi desti la colpa di tutte le storie in circolazione sul nostro conto… anche quello era divertente. Se non fossi stato sul punto di buttarmi dalla torre, avrei riso. Mi hai sempre fatto ridere.»

Era delizioso, l’odio tra noi. O almeno così pensavo. Era un’eccitazione familiare averlo lì per ridicolizzarlo e disprezzarlo.

Ma all’improvviso la scena intorno a me cominciò a cambiare. Non giacevo sui detriti. Camminavo attraverso la mia casa. E non portavo gli stracci luridi che mi avevano coperto per anni, ma una bella giacca a code e un mantello foderato di raso. E la casa, ah, la casa era bellissima, e tutti i libri erano al loro posto sugli scaffali. Il parquet brillava nella luce di un lampadario e da ogni parte giungeva la musica, il suono di un valzer viennese, la ricca armonia dei violini. A ogni passo mi sentivo di nuovo forte e leggero, meravigliosamente leggero. Avrei potuto salire i gradini a due a due. Avrei potuto spiccare il volo nella tenebra, con il mantello come due ali nere.

E poi salii nell’oscurità. Armand e io eravamo insieme sul tetto. Lui era radioso, nell’antiquato abito da sera, e guardavamo una giungla di alberi che stormivano e la curva lontana del fiume e il cielo basso dove le stelle ardevano tra le nubi grigioperla.

Piangevo nel vedere tutto questo e nel sentire il vento umido sul viso. E Armand mi stava accanto, mi cingeva con un braccio. Parlava di perdono e di tristezza, di saggezza e di cose apprese nel dolore. «Ti amo, mio fratello tenebroso», sussurrò.

Le parole scorsero dentro di me come sangue.

«Non volevo vendetta», bisbigliò. Il suo volto era turbato, il suo cuore infranto. «Ma sei venuto da me per essere guarito, e non mi volevi! Avevo atteso un secolo e non mi volevi!»

E seppi, come in realtà avevo sempre saputo, che il mio mutamento era un’illusione, che ero lo stesso scheletro cencioso, naturalmente. E la casa era ancora una rovina. E nell’essere sovrannaturale che mi sosteneva c’era il potere di restituirmi il cielo e il vento.

«Amami e il sangue è tuo», disse. «Il sangue che non ho mai dato ad altri.» Sentii le sue labbra contro il viso.

«Non posso ingannarti», risposi. «Non posso amarti. Cosa sei per me, perché ti ami? Una cosa morta assetata del potere e della passione di altri? L’incarnazione della sete?»

E in un momento di forza incalcolabile, fui io che lo colpii e lo feci cadere dal tetto. Era assolutamente privo di peso e la sua figura si dissolse nella notte grigia.

Ma chi era stato sconfitto? Chi precipitava fra i rami degli alberi, verso la terra, verso gli stracci e il sudiciume sotto la vecchia casa? Chi giaceva fra i detriti, con le mani e la faccia contro il suolo freddo?

Tuttavia la memoria gioca scherzi strani. Forse avevo immaginato il suo ultimo invito e l’angoscia successiva. Il pianto. So che, mentre i mesi passavano, Armand ritornò. Ogni tanto lo sentivo passare per le vecchie vie di Garden District. E volevo chiamarlo, spiegargli che gli avevo detto una menzogna e che l’amavo. L’amavo.

Ma per me era tempo d’essere in pace con tutte le cose. Era tempo di digiunare e di sprofondare nella terra e forse di sognare, finalmente, i sogni del dio. E come potevo parlare ad Armand dei sogni del dio?

Non c’erano più candele e non c’era più petrolio per le lampade. Da qualche parte c’era una cassaforte piena di denaro e gioielli e lettere ai miei avvocati e ai miei banchieri che avrebbero continuato per sempre ad amministrare le mie proprietà, grazie alle somme che gli avevo lasciato.

Quindi, perché non sprofondare nel terreno, sapendo che non sarebbe mai stato scavato, in quella vecchia città con le sue repliche cadenti di altri secoli? Tutto avrebbe continuato a esistere come prima.