«Non possiamo», ansimò Gabrielle. «Non possiamo restare qui. Devo uscire!» Piagnucolava, quasi. «Lestat, non posso.» Tastava le pareti con le mani, la pietra sopra di noi. Sentivo un gemito di terrore uscirle dalle labbra.
L’inno era finito. Il prete avrebbe salito i gradini dell’altare, avrebbe sollevato l’ostensorio con entrambe le mani. Si sarebbe girato verso i fedeli e avrebbe alzato l’ostia in un atto di benedizione. Gabrielle lo sapeva, naturalmente. Cominciò a contorcersi sotto di me, e quasi riuscì a scostarmi.
«Ascoltami!» sibilai. Non riuscivo più a controllare la situazione. «Usciremo. Ma lo faremo come devono farlo due veri vampiri, capisci? Nella chiesa ci sono mille persone, e le spaventeremo a morte. Io alzerò la pietra e usciremo insieme. Leva le braccia in alto e assumi l’espressione più orribile e grida con tutte le tue forze. Così indietreggeranno tutti, invece di balzarci addosso e di trascinarci in prigione. Poi correremo alla porta.»
Non mi rispose neppure. Si dibatteva e percuoteva con i tacchi le assi putride.
Mi alzai e spinsi con forza la lastra di marmo. Balzai fuori come avevo annunciato, sollevando il mantello in un arco gigantesco.
Piombai sul pavimento del coro in uno sfolgorio di candele e lanciai il grido più possente di cui ero capace.
Centinaia di fedeli scattarono in piedi davanti a me, centinaia di bocche si aprirono per urlare.
Gettai un altro grido, afferrai la mano di Gabrielle e mi avventai verso di loro, scavalcando la balaustra della comunione. Gabrielle lanciò un gemito acutissimo, alzando la mano sinistra come per graffiare mentre la trascinavo lungo la navata. Dovunque regnava il panico: uomini e donne stringevano i figli, urlavano e arretravano.
I battenti massicci si aprirono verso il cielo nero e il vento. Spinsi avanti Gabrielle, mi voltai, lanciai il mio urlo più terribile. Snudai le zanne per minacciare i fedeli tremanti. Senza sapere se qualcuno mi inseguiva o veniva spinto verso di me, mi frugai nelle tasche e sparsi sul pavimento manciate di monete d’oro.
«Il diavolo semina monete!» gridò qualcuno.
Attraversammo correndo il cimitero e ci avventurammo nei campi.
In pochi secondi arrivammo al bosco. Sentii l’odore della scuderia di una grande casa che sorgeva più avanti, oltre gli alberi.
Mi fermai, piegandomi nella concentrazione, e chiamai i cavalli. Poi corremmo verso di loro nel sentire il tuono sordo dei colpi di zoccolo contro le pareti.
Scavalcai la siepe bassa a fianco di Gabrielle e scardinai la porta mentre un bel castrone si precipitava fuori. Gli balzammo in groppa. Gabrielle si mise davanti a me e io la cinsi con un braccio.
Affondai i tacchi nei fianchi dell’animale e lo lanciai verso sud, verso Parigi.
8.
Tentai di fare un piano mentre ci avvicinammo alla città; ma non sapevo come procedere.
Era impossibile evitare gli immondi mostriciattoli. Eravamo avviati verso una battaglia. Ed era poco diverso dalla mattina in cui ero partito per sterminare i lupi, nella certezza che la rabbia e la forza di volontà mi avrebbero dato la vittoria.
Ci eravamo appena addentrati fra le fattorie sparse di Montmartre quando per una frazione di secondo sentimmo il loro mormorio fioco. Sembrava un vapore miasmatico.
Io e Gabrielle sapevamo che dovevamo bere subito, per essere pronti allo scontro,
Ci fermammo in una delle fattorie, attraversammo il frutteto per raggiungere l’ingresso posteriore, e trovammo all’interno marito e moglie che dormicchiavano accanto al focolare.
Quando finimmo, uscimmo insieme nell’orticello. Restammo immobili per un momento a guardare il cielo grigioperla. Gli altri non si sentivano. C’erano soltanto il silenzio, la chiarezza del sangue fresco e le nubi che minacciavano pioggia.
Mi voltai e, in silenzio, ordinai al castrone di avvicinarsi. Presi le redini e mi rivolsi a Gabrielle.
«Non c’è altra soluzione che andare a Parigi», le dissi. «Per affrontare i mostriciattoli. E fino a che non si mostreranno e non riprenderanno la guerra, vi sono diverse cose che devo fare. Devo pensare a Nicki e parlare con Roget.»
«Non è il momento di occuparti di simili sciocchezze», disse lei.
La terra del sepolcro aderiva ancora alla stoffa della sua giacca e ai suoi capelli biondi. Sembrava un angelo trascinato nella polvere.
«Non permetterò che si mettano tra me e ciò che intendo fare», ribattei.
Gabrielle trasse un respiro profondo.
«Vuoi guidare quegli esseri fino al tuo caro Monsieur Roget?» mi chiese.
Era troppo spaventoso per pensarci.
Caddero le prime gocce. Avevo freddo nonostante il sangue. Tra un momento la pioggia sarebbe diventata un acquazzone.
«Sta bene», dissi. «Non si può fare nulla sino a che non sarà liquidata questa faccenda!» Montai a cavallo e le tesi la mano.
«L’ingiuria ti sprona, non è vero?» Gabrielle mi studiava. «Qualunque cosa facessero o tentassero di fare, servirebbe soltanto a rafforzarti.»
«Ah, questa sì che è una sciocchezzai» dissi. «Su, vieni.»
«Lestat», mi disse in tono molto serio. «Dopo averlo ucciso, hanno rivestito il tuo mozzo di stalla con una giacca da gentiluomo. L’hai vista? Non l’avevi mai vista prima?» La maledetta giacca di velluto rosso…
«Io l’ho vista», disse Gabrielle. «L’ho fissata per ore accanto al mio letto, a Parigi. Era la giacca di Nicolas de Lenfent.»
La guardai per un lungo momento. Ma non la vedevo. La collera che ingigantiva dentro di me era assolutamente silenziosa. Continuerà a essere collera fino a che non avrò la prova che dev’essere angoscia, pensai. Poi non pensai più.
Vagamente, sapevo che Gabrielle non immaginava ancora quanto potessero essere potenti le nostre passioni, e come potessero paralizzarci. Mossi le labbra, credo, ma non ne uscì alcun suono.
«Non credo che l’abbiano ucciso, Lestat», disse lei.
Tentai nuovamente di parlare. Volevo chiederle: «Perché dici così?» Ma non potevo. Guardavo in direzione del frutteto.
«Credo che sia vivo», disse Gabrielle. «E che sia loro prigioniero. Altrimenti avrebbero lasciato là il suo corpo e non si sarebbero curati del mozzo di stalla.»
«Forse, o forse no.» Dovetti forzare la mia bocca per formare le parole.
«La giacca era un messaggio.»
Non resistevo più. «Vado a cercarli», dissi. «Tu preferisci tornare alla torre? Se dovessi fallire…»
«Non ho intenzione di lasciarti», disse lei.
Pioveva a dirotto quando arrivammo nel Boulevard du Temple, e le pietre bagnate del lastricato moltiplicavano la luce di mille lampade.
I miei pensieri avevano assunto la forma di strategie dettate più dall’istinto che dalla ragione. Ero pronto a battermi. Ma dovevo scoprire molte cose. Quanti erano? E cosa volevano veramente? Catturarci e annientarci, oppure spaventarci e metterci in fuga? Dovevo dominare la rabbia, e ricordare che erano puerili, superstiziosi, e che probabilmente sarebbe stato facile spaventarli e disperderli.
Non appena raggiungemmo le vecchie case nei pressi di Notre-Dame, li udii vicino a noi. La vibrazione giunse come un lampo argenteo e subito svanì.
Gabrielle si tese. Sentii che mi posava la mano sinistra sul polso. Vidi che aveva portato la destra all’impugnatura della spada.
Eravamo entrati in un vicolo tortuoso che svoltava nell’oscurità davanti a noi. I ferri del cavallo infrangevano il silenzio e io dovevo sforzarmi per non lasciarmi innervosire da quel suono.
Mi sembrò che li vedessimo in quello stesso momento.
Gabrielle si accostò a me, e io trattenni l’esclamazione che avrebbe dato un’impressione di paura.
In alto, sopra di noi, ai lati dello stretto vicolo, c’erano le facce bianche che sporgevano sopra le gronde, come un baluginare fioco contro lo sfondo del cielo tetro e la pioggia argentea e silenziosa.