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La faccia era rivolta verso di me, non di proposito, e i capelli erano un groviglio di riccioli e di sangue. Con gli occhi chiusi e la mano aperta, sembrava il figlio abbandonato del tempo e del caso sovrannaturale, infelice quanto me.

Che cosa aveva fatto per diventare ciò che era? Possibile che qualcuno tanto giovane, molto tempo addietro avesse intuito il significato d’una decisione, e soprattutto l’impegno di diventare così?

Mi alzai, mi avvicinai lentamente, mi fermai accanto a lui, e lo guardai, guardai il sangue che gli intrideva la camicia di trina e gli macchiava la faccia.

Mi parve che sospirasse. Sentii il suo respiro.

Non aprì gli occhi. Forse, per i mortali, non aveva alcuna espressione. Ma io sentivo la sua angoscia, la sentivo in tutta l’immensità, e avrei voluto non sentirla; e per un momento compresi l’abisso che ci divideva, e l’abisso che divideva il suo tentativo di sopraffarmi dalla mia difesa piuttosto semplice.

Aveva tentato disperatamente di vincere ciò che non comprendeva.

E per impulso, quasi senza sforzo, l’avevo battuto.

Tutto il mio dolore per Nicolas ritornò, e ritornarono a me le parole di Gabrielle e le accuse di Nicki. La mia collera non era nulla in confronto alla sua infelicità, alla sua disperazione.

E forse fu per questa ragione che mi chinai e lo sollevai. Forse lo feci perché era così squisitamente bello e così perduto, e perché dopotutto appartenevamo alla stessa razza.

Era abbastanza naturale, no, che uno come lui lo portasse via da quel luogo dove prima o poi i mortali l’avrebbero trovato, e l’avrebbero scacciato?

Non oppose resistenza. Dopo un momento si resse da solo, e s’incamminò stordito accanto a me, mentre gli cingevo le spalle con un braccio e lo sostenevo. Ci allontanammo dal Palais Royal, verso rue St.-Honoré.

Lanciavo sguardi distratti alle persone che incontravamo, fino a che scorsi sotto gli alberi una figura familiare, dalla quale non emanava l’odore della mortalità. Compresi che Gabrielle era lì da diverso tempo.

Si avvicinò in silenzio, esitando, e assunse un’espressione turbata nel vedere la faccia coperta di sangue e le lacerazioni della pelle bianca. Tese le mani come per aiutarmi a sorreggerlo, anche se sembrava non sapere cosa doveva fare.

Nei giardini bui, gli altri erano vicini, da qualche parte. Li udii prima di vederli. C’era anche Nicki.

Erano venuti come Gabrielle, attratti per miglia e miglia dal tumulto o forse da chissà quali vaghi messaggi: e adesso attendevano e guardavano mentre ci allontanavamo.

2.

Insieme lo portammo con noi alla scuderia, e lo caricai sulla mia cavalla. Ma sembrava che dovesse cadere da un momento all’altro. Montai dietro di lui e ce ne andammo, tutti e tre.

Mentre procedevamo attraverso la campagna, mi chiesi che cosa avrei fatto. Mi chiesi perché lo portavo nel mio covo. Gabrielle non protestò. Ogni tanto lo guardava. Lui taceva, ed era così piccolo, leggero come un bambino… ma non era un bambino.

Aveva sempre saputo dov’era la torre, sicuramente, ma le sbarre lo avevano tenuto fuori. Adesso intendevo portarlo là dentro. E perché Gabrielle non mi diceva qualcosa? Era l’incontro che avevamo desiderato, era ciò che avevamo atteso; ma sicuramente lei sapeva che cosa aveva appena fatto Armand.

Quando smontammo, lui mi precedette e attese che raggiungessi il cancello. Avevo preso la chiave di ferro e lo studiavo, chiedendomi quali promesse si devono esigere da un simile mostro prima di aprirgli la propria porta. Le antiche leggi dell’ospitalità avevano un significato per le creature della notte?

I suoi occhi erano grandi, scuri, sconfitti. Sembravano quasi assonnati. Mi guardò per un lungo momento silenzioso, quindi tese la mano sinistra e le sue dita si chiusero intorno alla sbarra centrale del cancello. Rimasi a guardare, impotente, mentre con uno stridore foltissimo il cancello incominciava a staccarsi dalla pietra. Ma Armand si fermò, accontentandosi di avere un po’ piegato la sbarra di ferro. Aveva dimostrato ciò che gli interessava. Avrebbe potuto entrare nella torre quando avesse voluto.

Esaminai la sbarra che aveva contorto. Lo avevo battuto. Avrei potuto fare anch’io ciò che aveva appena fatto lui? Non lo sapevo. Incapace di calcolare i miei poteri, come potevo calcolare i suoi?

«Vieni», disse Gabrielle, con un po’ d’impazienza. E scese per prima la scala della cripta.

Era freddo come sempre; l’aria pura della primavera non vi penetrava mai. Attizzò un gran fuoco nel vecchio focolare mentre io accendevo le candele. E, quando Armand sedette sulla panca di pietra a guardarci, vidi l’effetto del calore su di lui, il modo in cui il suo corpo sembrava diventare un po’ più grande, il modo in cui sembrava aspirare il tepore.

Si guardava intorno ed era come se assorbisse la luce. Il suo sguardo era limpido.

È impossibile valutare pienamente l’effetto del caldo e della luce sui vampiri. Eppure la vecchia congrega aveva rinunciato a entrambi.

Sedetti su un’altra panca e lasciai che i miei occhi vagassero come i suoi nell’ampia camera.

Gabrielle era rimasta in piedi. Gli si avvicinò. Aveva tirato fuori un fazzoletto e glielo accostò al viso.

La guardò nello stesso modo in cui guardava il fuoco e le candele, e le ombre che balzavano sulla volta. Sembrava che lo interessasse, semplicemente, come tutto il resto.

Provai un brivido quando mi accorsi che i lividi sulla sua faccia erano scomparsi quasi completamente. Le ossa erano di nuovo integre, la forma del viso era tornata normale: era soltanto un po’ smagrito per il sangue perso.

Il mio cuore si allargò leggermente, contro la mia volontà, come era accaduto sugli spalti quando avevo sentito la sua voce.

Pensai alla sofferenza di mezz’ora prima nel Palais, quando mi aveva affondato le zanne nel collo.

L’odiavo.

Ma non potevo smettere di guardarlo. Gabrielle lo pettinò. Gli prese le mani e le pulì del sangue. Armand sembrava incapace di muoversi. E lei non aveva tanto l’espressione di un angelo misericordioso quanto un’aria incuriosita, il desiderio di stargli vicino, di toccarlo ed esaminarlo. Nell’illuminazione tremula, si guardavano.

Lui si tese un po’ in avanti, gli occhi scuri e intensamente espressivi mentre si volgevano di nuovo verso il fuoco. Se non fosse stato per il sangue sui pizzi, sarebbe sembrato umano. Forse…

«Ora cosa farai?» chiesi. Parlavo perché fosse chiaro a Gabrielle. «Resterai a Parigi e lascerai fare a Eleni e agli altri?»

Armand non rispose. Mi studiava, studiava le panche di pietra, i sarcofagi. Tre sarcofagi.

«Sicuramente tu sai cosa stanno facendo», dissi. «Lascerai Parigi o resterai?»

Mi sembrò che volesse rimproverarmi ancora una volta l’enormità di ciò che avevo fatto a lui e agli altri; ma poi cambiò idea. Per un momento la sua faccia ebbe un’espressione desolata, sconfìtta, calda, piena d’infelicità umana. Quanti anni aveva? mi chiesi. Quanto tempo prima era stato un umano con quell’aspetto?

Mi sentì. Ma non rispose. Guardò Gabrielle, che stava accanto al fuoco, poi me. E in silenzio disse: Amami. Hai distrutto ogni cosa! Ma se mi ami, tutto potrà essere ricreato in una forma nuova. Amami.

La supplica muta aveva un’eloquenza che non saprei rendere a parole.

«Che cosa posso fare per indurti ad amarmi?» sussurrò. «Che cosa posso darti? La conoscenza di tutto ciò che ho veduto, i segreti dei nostri poteri, il mistero di ciò che sono?»

Rispondere mi sembrava blasfemo. E, come era accaduto sugli spalti, mi accorsi che stavo per piangere. Nonostante la purezza della comunicazione silenziosa, la sua voce dava un’incantevole risonanza ai suoi sentimenti, quando parlava.