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— Te lo dico dopo. — Jason tolse la mano dal microfono. — Sì, tesoro, sono proprio Jason, nel suo vero corpo reincarnato. Cosa c’è? Mi sembri a pezzi. Ti sfrattano un’altra volta? — Strizzò l’occhio a Heather, sorridendo di sbieco.

— Scaricala — disse Heather.

Coprendo di nuovo il microfono con la mano, Jason le disse: — Ma certo. Ci sto provando, non vedi? — Poi tornò a parlare al telefono. — Okay, Marilyn. Vomita tutto. Sono qui per questo.

Marilyn Mason era stata la sua protégée, per così dire, per due anni. Lei voleva diventare una cantante, essere famosa, ricca e amata come lui. Un giorno si era avventurata nello studio, durante le prove, e lui l’aveva notata. Visino teso e preoccupato, gambe corte, gonna troppo corta: com’era sua abitudine, Jason aveva catalogato tutto alla prima occhiata. E, una settimana più tardi, le aveva procurato un’audizione alla Columbia Records, con il direttore del settore a r, “Artisti e Repertorio”.

Quella settimana erano successe molte cose, che però non avevano nulla a che vedere con il canto.

Marilyn gli strillò all’orecchio: — Devo vederti. Se no mi uccido, e tu resterai col senso di colpa. Per il resto della vita. E racconterò a quella tizia, quella Heather Hart, che andiamo a letto insieme da sempre.

Jason sospirò tra sé. All’inferno, era già stanco, logorato dall’ora del suo show, tutto sorrisi, sorrisi, sorrisi. — Passerò il resto della notte in Svizzera — disse deciso, come se stesse parlando con una bambina isterica. Di solito, quando Marilyn era in uno dei suoi stati d’animo accusatori e semiparanoidi, funzionava. Ma, naturalmente, quella volta non fu così.

— Ti ci vorranno cinque minuti per arrivare qui, con la tua Rolls da un milione di dollari — gridò Marilyn al suo orecchio. — Voglio solo parlarti per cinque secondi. Ho qualcosa di molto importante da dirti.

“Probabilmente è incinta” pensò Jason. “Forse si è dimenticata di prendere la pillola, o magari l’ha fatto apposta.”

— Cosa puoi dirmi in cinque secondi che io non sappia già? — ribatté secco. — Parla adesso.

— Ti voglio qui con me — rispose Marilyn, con la sua consueta, totale mancanza di discrezione. — Devi venire. Non ti vedo da sei mesi, e in questo periodo ho pensato molto a te. E in particolare a quell’ultima audizione.

— Okay. — Jason si sentiva amareggiato e risentito. Ecco la ricompensa per avere cercato di far fare camera a una senza talento. Riappese rabbioso, si girò verso Heather e disse: — Sono contento che tu non l’abbia mai incontrata. È una vera…

— Stronzate — scattò Heather. — Io non l’ho “mai incontrata” perché tu hai fatto in modo che questo non succedesse.

— Comunque — disse lui, virando a dritta con l’aerauto, — le ho procurato non una ma due audizioni, e ha fatto cilecca. E, per non perdere la propria autostima, deve dare la colpa a me. In un modo o nell’altro, sono stato io a farle fare fiasco. Hai presente il quadro, no?

— Ha due belle tette? — chiese Heather.

— Be’, effettivamente… — Jason sorrise e Heather rise a gola spiegata. — Conosci il mio punto debole. Però la mia parte l’ho fatta. Le ho procurato un’audizione. Due. L’ultima è stata sei mesi fa e so benissimo che lei ci sta ancora rimuginando sopra. Chissà cos’ha dirmi.

Impostò sul modulo di comando una rotta automatica per il condominio di Marilyn, con il suo tetto piccolo ma sufficiente per l’atterraggio.

— Probabilmente è innamorata di te — aggiunse Heather, mentre Jason eseguiva le manovre di atterraggio. Poi fece scendere la scaletta.

— Come altri trenta milioni di donne — disse allegramente Jason.

Heather si mise comoda sul sedile ribaltabile della Rolls.

— Non stare via troppo altrimenti, te lo giuro, decollo senza di te.

— E mi lasceresti nelle grinfie di Marilyn? — Risero tutti e due. — Torno subito. — Jason attraversò lo spiazzo libero fino all’ascensore e premette il pulsante.

Quando entrò nell’appartamento, capì immediatamente che Marilyn era fuori di sé. Il suo viso era contratto e devastato dall’ira; il corpo si era talmente raggrinzito da dare l’impressione che stesse cercando di divorare se stessa. E gli occhi. Erano ben poche le cose di una donna che potevano mettere a disagio Jason, ma quei due occhi ci riuscirono. Perfettamente rotondi, con le pupille dilatate, lo trafiggevano mentre lei se ne stava lì a fissarlo a braccia conserte. Tutto in lei era duro e freddo come l’acciaio.

— Forza, sentiamo — disse Jason, e si mise subito a cercare una posizione di vantaggio. Di solito, anzi praticamente sempre, riusciva a controllare una situazione nella quale fosse coinvolta una donna; in effetti, era la sua specialità. Ma adesso… si sentiva a disagio. E lei continuava a non aprir bocca. Il viso, sotto il trucco, era completamente esangue, come se Marilyn fosse stata un cadavere rianimato. — Vuoi un’altra audizione? — chiese. — È questo?

Marilyn scosse la testa facendo segno di no.

— Okay. Dimmi di cosa si tratta. — Jason era stanco ma irrequieto. Però escluse l’inquietudine dalla voce; era troppo astuto, troppo pratico del mondo per permettere a Marilyn di fiutare la sua incertezza. “In un confronto diretto con una donna quasi il novanta per cento è bluff, per entrambe le parti. Dipende tutto da come, non da cosa.”

— Ho una sorpresa per te. — Marilyn si girò, scomparve in cucina. Lui la seguì.

— Tu dai ancora la colpa a me perché non hai avuto successo nelle due… — cominciò.

— Ecco qua. — Marilyn sollevò una borsa di plastica dallo scolapiatti, la tenne in mano per un attimo, con il viso ancora esangue e duro, gli occhi fissi e sbarrati; poi aprì la borsa, la fece ruotare nell’aria, si avvicinò velocissima a lui.

Accadde tutto in fretta. Jason indietreggiò d’istinto, ma troppo lentamente e troppo tardi. La spugna avvolgente di Callisto, una specie di massa gelatinosa, lo avviluppò con i suoi cinquanta tubi di suzione, si ancorò al suo petto. E lui sentì subito i tubi penetrargli dentro.

Balzò verso gli armadietti pensili, afferrò una bottiglia di scotch piena a metà, svitò il tappo con dita rapidissime e versò il liquido ambrato sulla creatura gelatinosa. I suoi pensieri erano diventati lucidi, addirittura brillanti. Non si lasciò prendere dal panico, ma restò lì a versare il liquore sulla creatura.

Per un momento non accadde nulla. Jason riuscì a mantenere la calma e a non abbandonarsi al terrore. Poi la cosa si riempì di bitorzoli, si raggrinzì, si staccò dal suo petto, cadde sul pavimento. Era morta.

Debolissimo, si sedette al tavolo di cucina. Si trovò a lottare per contrastare lo svenimento: alcuni dei tubi di suzione gli erano rimasti dentro, ed erano ancora vivi. — Non male — riuscì a dire. — Mi hai quasi fregato, piccola barbona fottuta.

— Non quasi — ribatté Marilyn Mason in tono piatto, privo di emozione. — Qualche tubo di suzione ti è rimasto dentro, e tu lo sai. Te lo leggo in faccia. E una bottiglia di scotch non li farà uscire. Niente li farà uscire.

A quel punto, Jason svenne. Intravide il pavimento grigioverde corrergli incontro ad abbracciarlo, poi ci fu il vuoto. Un vuoto che non conteneva più nemmeno lui.

Dolore. Aprì gli occhi, si toccò il petto con un gesto automatico. Il suo vestito di seta da sartoria era svanito. Indossava un pigiama di cotone da ospedale ed era sdraiato su una barella. — Dio — disse con le labbra contratte, mentre i due infermieri spingevano il lettino nel corridoio dell’ospedale in tutta fretta.

Heather Hart era china su di lui, ansiosa; ma, come Jason, perfettamente padrona di sé. — Ho capito che qualcosa non andava — gli disse in fretta, mentre gli infermieri lo portavano dentro una stanza. — Non ti ho aspettato sull’aerauto. Sono scesa a cercarti.