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— Probabilmente pensavi che fossimo a letto assieme — disse lui debolmente.

— Il dottore — continuò Heather — ha detto che, se fossero trascorsi altri quindici secondi, saresti rimasto vittima della violazione somatica, come la chiama lui. L’ingresso di quella cosa nel tuo corpo.

— La cosa l’ho sistemata — rispose Jason. — Ma non sono riuscito a eliminare tutti i tubi di suzione. Era troppo tardi.

— Lo so. Me l’ha detto il medico. Ti opereranno al più presto. Forse riusciranno a fare qualcosa, se i tubi non sono penetrati troppo in profondità.

— Sono stato bravo nel momento cruciale — sussurrò Jason. Chiuse gli occhi e sopportò il dolore. — Ma non abbastanza. Non del tutto. — Riaprì gli occhi e vide che Heather stava piangendo. — La situazione è così drammatica? — le chiese. Alzò una mano e prese quella di lei. Sentì tutto il suo amore quando Heather gli strinse le dita, e poi ci fu il nulla. A parte il dolore. Ma nient’altro: né Heather, né l’ospedale, né gli infermieri, né le luci. E nessun suono. Era un momento eterno.

2

La luce riprese a filtrare, come attraverso una membrana di luminescenza rossa. Aprì gli occhi e alzò la testa per guardarsi attorno. In cerca di Heather o del medico.

Era solo nella stanza. Nessun altro. Un cassettone con uno specchio venato da crepe. Vecchie, orribili applique che sporgevano dalle pareti sporche di grasso. E da qualche parte, nelle vicinanze, il suono di un televisore.

Non era in un ospedale.

E Heather non era con lui. Jason sperimentò la sua assenza, il vuoto totale di tutto senza di lei.

“Dio” pensò, “cos’è successo?”

Il dolore al petto era svanito, assieme a tante altre cose. Scosso, scostò la lercia coperta di lana, si mise a sedere, si grattò pensieroso la testa, chiamò a raccolta la sua vitalità.

Si rese conto di essere in una camera d’hotel. Uno schifoso hotel da due soldi, un posto per ubriaconi infestato dalle pulci. Niente tende, niente bagno. Il tipo di albergo in cui aveva vissuto anni addietro, all’inizio della sua carriera. Quando era uno sconosciuto e non aveva soldi. I giorni bui che scacciava sempre dalla memoria come meglio poteva.

Soldi. Si tastò, scoprì di non indossare più il pigiama da ospedale: portava di nuovo il vestito di seta, tutto spiegazzato. E, nella tasca interna della giacca, la mazzetta di banconote di grosso taglio, il denaro che avrebbe voluto giocarsi a Las Vegas.

Se non altro, aveva quello.

Cercò freneticamente con gli occhi un telefono. Ovviamente non c’era. Però, nell’atrio… Ma chi chiamare? Heather? Al Bliss, il suo agente? Mory Mann, il produttore del suo show televisivo? Il suo avvocato, Bill Wolfer? Oppure tutti quanti, e al più presto?

Tremante, riuscì in qualche modo ad alzarsi. Restò a ondeggiare sui talloni, imprecando per ragioni che non capiva. Era prigioniero di un istinto animale. Si preparò, preparò il suo forte corpo di Sei alla lotta. Ma non sapeva distinguere l’antagonista, e questo lo spaventava. Per la prima volta da quanto riuscisse a ricordare, avvertì il panico.

“È passato molto tempo?” si chiese. Non sapeva dirlo. Sembrava averne perso il senso. Era giorno. Trabi che guizzavano e strepitavano in cielo, oltre il vetro lurido della sua finestra. Guardò l’orologio. Segnava le dieci e trenta. E con ciò? Potevano essere passati mille anni, per quel che ne sapeva. L’orologio non era in grado di aiutarlo.

Ma il telefono gli sarebbe servito. Uscì nel corridoio polveroso, trovò le scale, scese lentamente un gradino dopo l’altro, aggrappandosi al corrimano, finché non si trovò nell’atrio deprimente, deserto, con le vecchie, traballanti poltrone imbottite.

Per fortuna aveva qualche moneta. Infilò un pezzo d’oro da un dollaro nella fessura e fece il numero di Al Bliss.

— Agenzia artistica Bliss — gli rispose la voce di Al.

— Senti — disse Jason, — non so dove mi trovo. Per amor di Dio, vieni a prendermi. Tirami fuori di qui. Hai capito, Al?

Silenzio. Poi, in tono remoto, distaccato, Al Bliss chiese: — Con chi parlo?

Lui ringhiò la risposta.

— Non la conosco, signor Jason Taverner — disse Al Bliss, ancora con la sua voce più neutra. — È sicuro di avere fatto il numero giusto? Con chi voleva parlare?

— Con te. Al. Al Bliss, il mio agente. Cose successo all’ospedale? Come ho fatto a finire qui? Non lo sai? — La marea del panico salì, e Jason lottò per imporsi l’autocontrollo. Costrinse le proprie parole ad assumere un tono pacato. — Puoi metterti in contatto con Heather per me?

— La signorina Hart ? — disse Al, e ridacchiò.

— Tu — disse Jason, furibondo — hai finito di essere il mio agente. Punto. Qualunque sia la situazione. Sei fuori.

Al Bliss ridacchiò un’altra volta, e poi, con un clic, la comunicazione si interruppe. Al Bliss aveva riappeso.

“Ucciderò quel figlio di puttana” si disse Jason. “Ridurrò in pezzettini minuscoli quel bastardo di un grassone calvo.

“Cosa sta cercando di farmi? Non capisco. Cos’ha contro di me, cosi, all’improvviso? Che diavolo gli ho fatto, Cristo santo? È mio amico e mio agente da diciannove anni. E una cosa del genere non è mai successa.

“Proverò con Bill Wolfer” decise. “È sempre in ufficio o comunque reperibile. Riuscirò a raggiungerlo e scoprirò cosa accidente ci sia sotto.” Infilò una seconda moneta da un dollaro nella fessura e, a memoria, compose un altro numero.

— Studio legale Wolfer Blaine — gli risuonò all’orecchio la voce di un’impiegata.

— Passami Bill — disse Jason. — Sono Jason Taverner. Hai capito bene chi.

L’impiegata disse: — Oggi il signor Wolfer è in aula. Preferisce parlare col signor Blaine, oppure devo farla richiamare dal signor Wolfer quando rientrerà in ufficio, nel pomeriggio?

— Ma sai chi sono? — chiese Jason. — Sai chi è Jason Taverner? Guardi la tivù? — A quel punto perse quasi il controllo della propria voce; la sentì spezzarsi e salire a un livello acuto. Se ne riappropriò con uno sforzo enorme, ma non riuscì a fermare il tremito delle mani. In realtà, tutto il suo corpo stava tremando.

— Mi spiace, signor Taverner — disse l’impiegata. — Proprio non posso parlare a nome del signor Wolfer o…

— Guardi la tivù?

— Sì.

— E non hai mai sentito parlare di me? Del Jason Taverner Show, alle nove di sera del martedì?

— Mi spiace, signor Taverner. Lei deve conferire direttamente col signor Wolfer. Mi lasci il suo numero di telefono e la farò richiamare in giornata.

Jason riappese.

“Sono impazzito” pensò. “Oppure è impazzita lei. Lei e Al Bliss, quel figlio di puttana. Dio!” Si allontanò distrutto dal telefono, si buttò su una delle poltrone consunte. Stare seduto era una bella sensazione. Chiuse gli occhi e inspirò lentamente, profondamente. E rifletté.

“Ho cinquemila dollari in banconote del governo di grosso taglio” si disse. “Quindi non sono del tutto inerme. E quella cosa è scomparsa dal mio petto, assieme ai suoi tubi di suzione. All’ospedale devono essere riusciti a rimuoverli chirurgicamente. Quindi, se non altro, sono vivo; di questo posso rallegrarmi. C’è stato un salto temporale? Dov’è un giornale?”

Trovò una copia del “Los Angeles Times” su un divano lì vicino, lesse la data: 12 ottobre 1988. Nessun salto temporale. Era il giorno dopo il suo ultimo show. Il giorno dopo il suo ingresso in ospedale, moribondo per colpa di Marilyn.

Gli venne un’idea. Sfogliò il quotidiano finché non trovò la pagina degli spettacoli. Da tre settimane si esibiva tutte le sere nella Sala Persiana dell’Hollywood Hilton. Tranne ovviamente il martedì, per lo show televisivo.