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— Il Khan verrà operato oggi? — si informa Mangu con fare preoccupato.

Mordecai replica, annuendo: — Tra tre ore circa.

Mangu aggrotta la fronte. È un giovane mongolo dall’aspetto curato e attraente, insolitamente alto per la sua razza: alto quasi quanto lo stesso Mordecai. Il suo volto è tondo, i lineamenti simmetrici ed eleganti; gli occhi attenti e vivaci. In questo momento sembra teso, agitato, apprensivo.

— Andrà tutto bene, Shadrach? Ci sono rischi?

— Non preoccuparti. Non diventerai Khan quest’oggi. È solo un trapianto del fegato, dopotutto.

— Solo!

— Gengis Mao ne ha già fatti in abbondanza.

— Ma quante operazioni chirurgiche può reggere ancora? Gengis Mao è un uomo anziano.

— Meglio che lui non ti senta dire cose del genere!

— Probabilmente ci sta ascoltando proprio in questo momento — dice Mangu, noncurante. Parte della tensione sembra lasciarlo. Fa una smorfia. — Il Khan non prende mai sul serio quel che dico io, in ogni caso. Sono convinto che a volte mi consideri un po’ uno sciocco.

Mordecai sorride, leggermente a disagio. Anche lui a volte pensa che Mangu sia un po’ uno sciocco, e forse più che un po’ soltanto. Si ricorda di quando la dottoressa Crowfoot del Progetto Avatar, Nikki Crowfoot, la sua Nikki, con cui avrebbe volentieri passato la notte non fosse stato per l’operazione di Gengis Mao, gli raccontò mesi fa della sorte agghiacciante che attende Mangu. Mordecai sa qualcosa che Mangu quasi certamente ignora: Gengis Mao progetta di succedere a se stesso, usando come strumento il forte, sano, giovane corpo di Mangu. Se il Progetto Avatar raggiungerà una conclusione positiva, e tutto pare indicare che sarà così, l’elegante e robusta figura di Mangu si troverà davvero un giorno a sedere sul trono di Gengis Mao, ma Mangu stesso non sarà lì a godersi l’occasione. Agli occhi di Mordecai, chiunque marci allegramente verso la propria distruzione come sta facendo Mangu, senza accorgersi di niente, senza sospettare niente, senza temere niente, è uno sciocco e peggio che uno sciocco.

— Dove sarai durante l’operazione? — chiede Mordecai.

Mangu fa un ampio gesto nella direzione del piano di comando principale del Vettore di Comitato Uno. — Lassù, a fingere di dirigere lo spettacolo.

— Fingere?

— Sai bene che ci sono molte cose che devo ancora imparare, Shadrach. Ci vorranno ancora anni prima che io sia pronto a prendere il comando. È per questo che sarei più contento se lui non si sottoponesse a tutti questi trapianti.

— Non lo fa per ginnastica — dice Mordecai. — Il fegato con cui vive adesso è in difficoltà da settimane. Dobbiamo toglierlo. Ma te l’ho detto: non c’è bisogno che ti preoccupi.

Mangu sorride e afferra l’avambraccio di Mordecai in una breve, affettuosa stretta, sorprendentemente dolorosa. — Non mi preoccuperò. Mi fido di te, Shadrach. E di tutta la squadra che tiene in vita il Khan. Fammi sapere quando sarà finita, d’accordo?

Si allontana a grandi passi, verso il posto di comando principale, dove giocherà un po’ a fare il monarca mondiale.

Mordecai scuote la testa. Mangu è un personaggio attraente, socievole e affascinante; perfino carismatico. In un momento storico oscuro, illuminato solo da terribili lampi spezzati di luce da incubo, Mangu è una specie di eroe popolare. Nell’ultima decina di mesi è diventato il surrogato pubblico del Khan, presente al posto di Gengis Mao in ogni sorta di funzioni formali, inaugurazioni di dighe, congressi del Comitato e roba del genere, e il fascinoso, galante principe ereditario, così disarmante, così semplice nei modi, così aperto con il popolo, è adorato in una maniera che Gengis Mao non ha mai conosciuto, nemmeno per un istante. Chi ha osservato Mangu da vicino sa bene che egli è essenzialmente un uomo vuoto, tutto immagine e niente sostanza, un’anima frivola e superficiale, un amabile atleta che sta vivendo una messinscena poco plausibile; ma se non è degno di ammirazione, Mangu non è neanche degno di disprezzo, tutt’altro, e Mordecai prova una sincera compassione per lui. Povero Mangu, tutto preoccupato per la possibilità di ritrovarsi a succedere al Khan oggi stesso, il suo apprendistato non ancora giunto a termine! Non viene il dubbio a Mangu che mai — non tra un anno, non tra dieci anni, non tra mille — potrebbe essere un valido successore di Gengis Mao, lui, così fondamentalmente incapace di gestire il terribile potere che in apparenza lo stanno preparando a ereditare?

A quanto pare, no. Se così fosse Mangu, conoscendo i propri limiti, avrebbe cominciato a domandarsi quali siano i reali piani che Gengis Mao ha per lui, e perché il Presidente abbia scelto come successore niente di più che un ragazzo attraente, tutto il suo opposto in ogni aspetto importante. Per addestrarlo a essere sovrano supremo? No. No. Per addestrarlo a essere niente più che un pupazzo; a danzare davanti al popolo e a guadagnarsene l’amore. E poi, un giorno, a lasciarsi raccogliere e gettar via l’identità, così che il suo corpo possa diventare la nuova abitazione per la mente astuta e per l’anima oscura di Gengis Mao, quando lo scafo antico e rattoppato del Presidente non potrà più essere riparato. Povero Mangu. Mordecai ha un brivido.

Si affretta verso il proprio studio, si tira dietro la porta e dà un giro di chiave.

C’è uno scatto improvviso ed acuto nella sua coscia sinistra, vicino al fianco, il luogo dove Mordecai riceve il segnale cerebrale di Gengis Mao. Quattro stanze più in là, il Khan si sta svegliando.

2

Lo studio di Mordecai è un’isola di tranquillità nel mezzo dell’intensità tumultuosa della vita ai piani alti della Gran Torre del Khan. La stanza, una sfera di dieci metri di diametro, ha molti ingressi, ma sono programmati per aprirsi solo davanti a lui o a Gengis Mao. Uno è la porta dalla quale è appena entrato, lasciando il Vettore di Comitato Uno. Un altro conduce alla stanza privata dove il Khan usa consumare i suoi pasti, e un altro ancora, sul lato opposto della stanza, dà su uno studio perfettamente isolato e raramente utilizzato, noto come l’Eremo del Khan. L’ultima porta, Interfaccia Cinque, collega lo studio del dottore alla Sala di Chirurgia che, alta due piani, occupa uno dei cunei esterni della torre.

In quel rifugio che è il suo studio, Shadrach Mordecai si gode qualche momento di pace prima di procedere nel suo viaggio verso la concitazione della giornata. Anche se Gengis Mao si è alzato, non c’è bisogno di affrettarsi. I noduli di Mordecai gli dicono (è ormai in grado di interpretare ogni insignificante segnale interno come un aspetto concreto delle attività del Khan) che i servitori imperiali sono entrati nella camera da letto del Khan, lo hanno aiutato ad alzarsi, lo stanno guidando nei tranquilli esercizi ginnastici che il Khan, su insistenza del dottor Mordecai, esegue ogni mattina, stendendo le braccia, gonfiando il petto. Come prossimo passo gli faranno il bagno, poi si occuperanno della rasatura, infine lo vestiranno e lo accompagneranno. Anche se non ci sarà colazione per Gengis Mao oggi, per via dell’operazione imminente, Shadrach Mordecai ha almeno un’ora prima di doversi occupare del Khan.

Il semplice fatto di trovarsi nello studio gli solleva il morale. Il rivestimento scuro, lussuoso, delle pareti; l’illuminazione soffusa; lo sgombro scrittoio ricurvo, fabbricato con ricercate varietà di legno esotico; la splendida libreria di aste di cristallo e sottili mensole di travertino, dove Mordecai conserva la sua biblioteca di testi medici classici di valore inestimabile; le eleganti bacheche che accolgono la sua ricca collezione di strumenti medici antichi: tutto questo per lui è un ambiente ideale, il tempio perfetto per il medico che gli piacerebbe essere e che talvolta riesce a convincersi di essere, maestro delle arti ippocratiche, principe dei guaritori, colui che preserva e prolunga la vita. Non che questa stanza sia un luogo adatto alla pratica della medicina. I soli strumenti medici qui sono antichi, un armamentario pittoresco e romantico, strani alambicchi e bisturi e lanciole, coltelli per incisioni e cauterizzatori, oftalmoscopi e defibrillatori, modelli anatomici pionieristici e poco accurati, seghe chirurgiche, sfigmomanometri, rinvigoritori elettrici, flaconi di antitossine screditate, trapani, microtomi, relitti di tempi più innocenti. Ha raccolto queste cose con devozione nel corso degli ultimi cinque anni, come modo di stabilire la sua affinità professionale con i grandi medici di ieri. E anche i libri, oggetti rari di buon auspicio, pietre miliari della storia della medicina, talismani di progresso scientifico: la Fabrica di Vesalius, De motu cordis di Harvey, le Institutiones di Boerhaave, Laënnec sull’auscultazione, Beaumont sulla digestione. Con che gioia li ha collezionati, con che riverenza li ha maneggiati! Non senza un sentimento di colpa, pure, perché in quest’era tormentata e svilita è fin troppo facile per quei pochi che hanno potere e ricchezza avvantaggiarsene nei confronti di coloro che non ne hanno; e Mordecai, così vicino al trono, ha accumulato i suoi tesori a buon mercato, afferrandoli allorché scivolavano dalla presa di precedenti proprietari più sfortunati, forse più degni. D’altro canto, se queste cose non fossero giunte a lui avrebbero potuto andare semplicemente perse, nel caos che emerge incontrollato per il mondo al di fuori della Gran Torre del Khan.