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Il Presidente chiede: — E nel mio caso?

— Dovremo fare tutta una serie di esami, naturalmente. Ma sulla base di quel che mi dicono gli impianti chirurgici, propenderei per un rapido intervento chirurgico correttivo.

— Non ho mai subito interventi al cervello.

— Lo so, signore.

— È l’idea che non mi piace. Un polmone o un rene sono roba banale. Non voglio avere i laser di Warhaftig che mi frugano in testa. Non voglio che mi si taglino via dei pezzi di mente.

— Quello è fuori questione.

— E cosa farete, allora?

— È una terapia di decompressione, nient’altro. Installeremo dei tubi con delle valvole, per deviare il liquido in eccesso direttamente nel sistema giugulare. È un’operazione relativamente semplice, e molto meno pericolosa di un trapianto di organi.

Gengis Mao fa un sorriso di ghiaccio. — Io però ai trapianti d’organi ci sono abituato. Credo che mi piacciano i trapianti d’organi. La chirurgia del cervello è qualcosa di nuovo per me.

Shadrach prepara un sedativo per il Presidente e dice in tono allegro: — Forse finirà per piacerle anche la chirurgia del cervello, signore.

Il mattino dopo, Shadrach rintraccia Frank Ficifolia al nodo principale delle comunicazioni, nel profondo del nocciolo dei servizi della torre. — Avevo sentito dire che eri tornato — dice Ficifolia. — L’avevo sentito dire, ma non ci credevo. Cristo santo, perché sei tornato?

Shadrach osserva diffidente le file di schermi e monitor. — Parlare qui è sicuro?

— Gesù. Pensi che metterei delle microspie nel mio stesso ufficio?

— Potrebbe averlo fatto qualcun altro, senza venirtelo a dire.

— Parla — dice Ficifolia. — Non c’è rischio, qui.

— Se lo dici tu.

— Lo dico io. Perché non te ne sei stato dov’eri?

— I Citpol sapevano dov’ero, minuto per minuto. Avogadro in persona mi si è presentato davanti a Pechino.

— Cosa ti aspettavi? Se prendi mezzi di trasporto commerciali in giro per il mondo… Ci sono dei modi di nascondersi, ma… è stato Avogadro a farti ritornare qui, allora?

— Avevo già preso il biglietto.

— Ma Cristo, perché?

— Sono tornato perché ho trovato un modo di salvare la pelle.

— Il modo di salvarti la pelle è sparire.

— No — dice Shadrach con forza. — Il modo di salvarmi la pelle è tornare e continuare a svolgere le mie funzioni di medico del Presidente. Sai che il Presidente è malato?

— Delle brutte emicranie, mi dicono.

— Emicranie pericolose. Dovremo operare.

— Chirurgia del cervello?

— Sì.

Ficifolia stringe le labbra e studia il volto di Shadrach come se stesse esaminando una cartina dell’Eldorado. — Una volta ti ho detto che non eri abbastanza pazzo per sopravvivere in questa città. Forse mi sbagliavo. Forse sei pazzo, fin troppo. Devi essere pazzo, se credi di poter pasticciare intenzionalmente con un’operazione a Gengis Mao e cavartela. Credi che Warhaftig non noterà quello che stai facendo, che non ti fermerà? O che non ti denuncerà, se riesci effettivamente a combinare un guaio? A cosa serve uccidere il Khan, se poi finisci ai vivai? Come…

— I medici non uccidono i loro pazienti, Frank.

— Ma…

— Stai balzando a delle conclusioni. Stai proiettando le tue stesse fantasie, forse. Io farò l’operazione e basta. Curerò il mal di testa del Presidente. E starò attento che resti in buona salute. — Shadrach sorride. — Non fare domande. Aiutami e basta.

— Aiutarti come?

— Vorrei che mi trovassi Buckmaster. C’è un dispositivo speciale di cui avrò bisogno, e lui è la persona adatta per costruirlo. Poi vorrei che tu mi aiutassi a preparare i circuiti telemetrici che mi serviranno per farlo funzionare.

— Buckmaster? Perché proprio Buckmaster? Qui è pieno di gente bravissima, esperti di microingegneria che fanno parte del personale.

— Per questo lavoro voglio Buckmaster. È il migliore nel suo campo, e coincidenza vuole che sia anche quello che ha costruito il mio sistema di impianti. Spetta a lui costruire qualunque aggiunta a quel sistema. — Lo sguardo di Shadrach non suggerisce intenzioni di compromesso. — Mi troverai Buckmaster?

Ficifolia, dopo qualche istante, sbatte gli occhi e annuisce deciso. — Ti porterò da lui — dice. — Quando vuoi che andiamo?

— Ora.

— Proprio ora? Proprio in questo minuto, letterale?

— Ora — dice Shadrach. — È molto lontano?

— No, non molto.

— Dov’è?

— A Karakorum — risponde Ficifolia. — Lo abbiamo nascosto tra i transtemporalisti.

2 gennaio 2009

Ho insistito, e mi hanno lasciato provare l’esperienza del transtemporalismo. Parlavano tutti molto di rischi, di effetti collaterali, delle mie responsabilità di fronte al bene comune. Mi sono imposto. Non mi capita spesso di dover insistere. Succede raramente che io possa parlare di quel che mi lasciano fare. Ma questa è stata una lotta. Che naturalmente ho vinto, ma ce n’è voluta. Sono andato a Karakorum di notte, sotto una neve leggera. La tenda era stata sgombrata. C’erano guardie in postazione. Teixeira mi aveva fatto già una visita di controllo completa. Per via delle droghe che usano. Salute perfetta: posso smaltire senza problemi le pozioni più potenti. Nella tenda, dunque. Posto buio, fetore. Mi ricordo quell’odore dalla mia infanzia: feci di vacca che bruciano, pelli di capra che nessuno ha conciato. Si fa avanti un piccolo lama dalla schiena china. Tutt’altro che impressionato dalla mia presenza, nessuna traccia di soggezione; perché provare soggezione per Gengis Mao, d’altronde, quando puoi mandare giù un sorso di droga e andare a trovare Cesare, il Budda, Gengis Khan? Il lama mescola le sue sostanze, le prepara per me. Olii, polveri. Mi porge la tazza, e io bevo. Dolce, gommoso, non è un gusto piacevole. Mi prende la mano, mi sussurra delle cose, e io mi sento girare la testa, la tenda diventa una nuvola e se ne va. Mi ritrovo in un’altra tenda, ampia e bassa, bandiere bianche e addobbi di broccato, ed eccolo lì davanti a me, il corpo tozzo, basso, un uomo di mezl’età o appena oltre, lunghi baffi scuri, occhi piccoli, bocca forte, puzza di sudore come se non facesse il bagno da anni: e per la prima volta in vita mia provo l’impulso di gettarmi in ginocchio di fronte a un altro essere umano, perché questo è sicuramente Temucin, questo è il Gran Khan, è lui, il fondatore, il conquistatore. Non mi inginocchio, se non dentro di me. Dentro di me cado ai suoi piedi. Gli offro la mano. Chino la testa.

— Padre Gengis — dico. — Attraverso novecento anni sono venuto a renderti omaggio.

Mi guarda senza troppo interesse. Dopo qualche istante mi porge una tazza. — Bevi dell’airag, vecchio.

Beviamo dalla stessa tazza, prima io, poi il Gran Khan. È vestito in modo semplice, senza mantelli scarlatti, stole di ermellino, corone, soltanto il cuoio di un costume da guerriero. La sommità della sua testa è stata rasata e, dietro, i capelli gli raggiungono le spalle. Potrebbe uccidermi con un colpo della mano sinistra.

— Cosa vuoi? — domanda.

— Vederti.

— Vedermi. E che altro?

— Dirti che vivrai in eterno.

— Io morirò come muoiono tutti, vecchio.

— Il tuo corpo morirà, padre Gengis. Il tuo nome vivrà nei millenni.

Lui ci pensa su. — E il mio impero? Che ne sarà del mio impero? I miei figli regneranno dopo di me?