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— Non dire così. Suona solenne, Roger, ma è una stupidaggine pericolosa. Peccato d’orgoglio, giusto? Sei stato soccorso da altri uomini come te. Devi loro la vita. Hanno corso dei rischi per te. Hai degli obblighi nei loro confronti.

— Prego per loro ogni giorno.

— C’è qualcosa di più immediatamente utile che puoi fare.

— La preghiera è il bene più alto che io conosca — dice Buckmaster. — La colloco certamente più in alto della microingegneria. Non riesco a vedere come qualunque lavoro di microingegneria che lei mi possa dare potrebbe aiutare i miei simili.

— C’è un lavoro che può fare questo.

— Non riesco a immaginare…

— Gengis Mao avrà presto un’altra operazione.

— Cosa significa Gengis Mao per me? Lui mi ha di menticato. Io ho dimenticato lui.

— Un’operazione al cervello — prosegue Shadrach. — In questo momento gli si sta accumulando del liquido nel cranio. Se non viene drenato, potrebbe ucciderlo. Tra breve tempo installeremo un sistema di drenaggio con una valvola attraverso la quale si può rimuovere il liquido. Contemporaneamente installeranno dentro di me un nuovo impianto telemetrico. Che io vorrei mi progettassi tu, Roger.

— Quale sarà la sua funzione?

— Permettermi di controllare l’azione della valvola — dice Shadrach.

Due ore più tardi, Shadrach è nella grande cappella di carpenteria, all’altro capo del complesso ricreativo di Karakorum; circondato da ceselli e scalpelli e seghe, cerca di entrare nello stato meditativo iniziale. Non ci sta riuscendo molto bene. Ogni tanto ne sente le prime avvisaglie, il principio del giusto grado di concentrazione; ma non lo trattiene che per un istante e poi, congratulandosi con se stesso per aver finalmente raggiunto lo stato, lo perde, lo perde ogni volta. È colpa di Buckmaster. Buckmaster non se ne vuole andare dal fronte della coscienza di Shadrach.

Se Buckmaster fosse riuscito a convincerlo, ora Shadrach non sarebbe neanche fra i carpentieri; sarebbe ancora nella tenda dei transtemporalisti, drogato e inerte, immobile mentre la sua anima se ne torna indietro per i millenni ad assistere al sanguinoso rito del Calvario. — Beva dalla coppa insieme a me — aveva insistito Buckmaster. — Assisteremo insieme alla Passione. — Ma Shadrach aveva rifiutato. Un’altra volta, ha detto con gentilezza a Buckmaster. I salti transtemporali consumano troppa energia; Shadrach ha bisogno di tutta la sua forza per il difficile compito che lo aspetta. Buckmaster aveva capito, o era almeno disposto a perdonarlo per non aver voglia di fare il viaggio proprio in quel momento. E Shadrach se n’era andato dalla tenda, con la promessa di Buckmaster che i disegni del nuovo impianto sarebbero stati pronti all’incirca in un giorno. Ma Buckmaster lo ossessiona ancora.

Che sorpresa vedere l’atteggiamento monacale di Buckmaster scivolargli via nel momento in cui ha capito le implicazioni della richiesta di Shadrach: il respiro gli si è fatto più veloce, le guance più rosee, gli occhi si sono accesi della vecchia eccitazione. Ha fatto mille domande, richiesto specifiche e soglie di funzione, parametri dimensionali, preferenze per la collocazione fisica del congegno. Prendeva appunti furiosamente. Una mezz’ora gli era bastata per tratteggiare gli schemi di fondo. Avrebbe avuto bisogno di sostegno informatico per gli stadi conclusivi, aveva detto, ma questo non sarebbe stato un problema: Ficifolia poteva approntare un collegamento telefonico per lui, dandogli accesso diretto al computer principale dello stesso Gengis Mao. E Buckmaster aveva riso in modo stridente. La sua espressione era mutata bruscamente. La serenità era ritornata. Aveva messo da parte la microingegneria; improvvisamente era di nuovo un monaco, calmo, remoto, glaciale, e diceva: — Beva dalla coppa insieme a me. Assisteremo insieme alla Passione.

Povero, folle Buckmaster.

Shadrach, lottando per riconquistare la serenità, prende in mano un punteruolo, lo rimette giù, prende un succhiello, passa le dita lungo la lama ricurva di un cesello, si preme una lima contro la fronte. Va meglio. Un po’ meglio. Il contatto col metallo freddo gli dà sollievo. Quel povero folle di Buckmaster avrà ormai vuotato la coppa, non c’è dubbio. E sarà partito sulle ali del sogno, a vederli poggiare la corona di spine, martellare i chiodi, scagliare la lancia. Folle? Buckmaster è un uomo felice. Si è posto al di là del dolore. Si è dimostrato più in gamba degli scagnozzi di Gengis Mao. È emerso dal tormento per vivere in santità, e passeggerà ogni giorno con gli apostoli e col Salvatore. Per Buckmaster, la Palestina di Gesù è più reale della Mongolia di Gengis Mao, e chi può contraddirlo? Shadrach potrebbe fare la stessa scelta, se scelta avesse. Certo, alla fine la realtà farà intrusione nelle fantasie di Buckmaster: verrà un tempo, presto, in cui l’ultima iniezione di Antidoto di Roncevic terminerà il suo effetto, e non ci sono molte probabilità che lui possa ottenere una dose di richiamo. Ma, molto semplicemente, Buckmaster non se ne cura.

Pensare alla tranquillità da poco acquisita da Buckmaster permette a Shadrach di intravederne egli stesso un baluginio. Questa volta lo incoraggia, si affida a questo viaggio interiore verso quel posto chiaro e luminoso dove le tempeste non si spingono. Buckmaster svanisce; Gengis Mao svanisce; Shadrach svanisce. Per ore lavora tranquillo al suo bancone, è una cosa sola coi suoi attrezzi, col suo legname. Quando esce dalla cappella, sul finir del giorno, è in uno stato prossimo all’estasi.

Raggiunge Ulan Bator un’ora dopo il tramonto. Non appena è arrivato telefona a Katya Lindman.

— Ti voglio vedere — dice.

— Speravo che chiamassi. Sapevo che eri tornato.

Si incontrano nel salone di ricreazione al cinquantesimo piano, un luogo di appuntamento abituale del personale di medio rango. Il servizio è discreto. La sala è un impressionante ovale a volta alta, decorato con dei festoni metallici sottilissimi, dello spessore di poche molecole: color oro, scendono dal soffitto e volteggiano dolcemente nelle correnti d’aria. Un gigantesco ritratto di Gengis Mao occupa l’intera parete orientale del salone, e sul lato opposto ce n’è uno di Mangu.

Katya indossa quello che per lei è un abito insolitamente succinto, un involto attillato fatto di un morbido tessuto color ruggine, tagliato in modo da lasciarle scoperte le spalle forti e ampie e mettere in mostra il seno abbondante. Forse ha anche messo del profumo. Shadrach non l’ha mai vista fare la minima concessione alla femminilità convenzionale, e ora è sorpreso e deluso a vederla puntare su uno stile di seduzione così poco sottile. È completamente fuor di carattere per lei, e completamente immotivato. Ma forse Katya si è stancata di restare fedele a un carattere, a un personaggio: occhi severi, denti affilati, bocca crudele, mente fredda ed efficiente, la scienziata svelta e abile. Gli ha già confessato il suo amore; forse ora vuole recitare la parte del tipo di donna per la quale l’amore è un’eventualità plausibile. Sciocco da parte sua, se è questo il suo gioco; Shadrach preferisce di gran lunga la Katya che conosce. O che crede di conoscere. L’amore non è una festa in maschera.

Gli dice: — Credevo che non saresti più tornato.

— Non ne ho mai avuto intenzione. Non stavo cercando di sparire. Solo di allontanarmi per un po’ e pensare ben bene alle cose.

— E ci sei riuscito?

— Lo spero. Lo saprò presto.

— Non farò domande.

— No. Non farne.

Katya sorride. — Sono contenta che tu sia tornato. Ma sono preoccupata per il pericolo che corri.

— Se io non mi preoccupo, perché dovresti farlo tu?

— Non c’è bisogno che risponda a questa domanda. — La voce ha un tono velato, quasi teatrale. Katya si sporge in avanti e dice: — Mi sei mancato, Shadrach. Mi ha stupito vedere quanto mi mancavi. Non ti piace sentirmi dire cose del genere, vero?