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Ora stanno ricercando un sito per la valvola di drenaggio. Warhaftig ha ripreso il comando. Invece di un laser, sta utilizzando a questo punto un ago cavo riempito di azoto liquido, raffreddato criostaticamente alla temperatura di -160° C. L’ago, infilandosi nelle profondità del tronco dell’encefalo del Khan, congela le cellule cerebrali col suo contatto, e se il contatto si prolunga le ucciderà. Mentre Malin annuncia valori rilevati dagli strumenti, e Shadrach fornisce dati teletrasmessi sullo stato delle attività autonome di Gengis Mao, Warhaftig, rassicurato del fatto che non sta distruggendo centri neurali vitali, apre uno spazio per l’inserimento del dispositivo di drenaggio. Tutto procede liscio. Il Khan continua a respirare, a pompare sangue, a generare la normale marea di onde elettroencefalografiche. Alloggiati dentro di lui ora ci sono un tubicino che devia il liquido cerebrospinale in eccesso nel sistema circolatorio, una valvola attraverso la quale il liquido può venire risucchiato, e un impianto telemetrico che fornirà al medico di Gengis Mao rapporti costanti sul funzionamento di quella valvola e sui livelli di liquido dei ventricoli cranici. Osso e pelle vengono risistemati; il Khan, che ha l’aria stravolta e pallida ma ora sorride, viene condotto alla sala di ricupero.

Warhaftig si rivolge a Shadrach. — Dato che abbiamo tutto già pronto, procediamo all’operazione successiva immediatamente. Va bene? — Tocca la mano sinistra di Shadrach. — Lei vuole che l’impianto telemetrico venga collocato qui, è così? Innestato nei muscoli del palmo. Ma non alla base del pollice, eh? Qui giù, più vicino al centro del palmo, ho capito bene? Perfetto. Procediamo alla disinfezione e cominciamo, allora.

Shadrach e Nikki, al loro primo incontro da quando lui è ritornato, si trovano a disagio insieme. Lui cerca di sorridere, ma dubita che la propria faccia stia facendo un ottimo lavoro, e la cordialità di lei pare altrettanto forzata.

— Come sta il Khan? — chiede infine lei.

— Si sta riprendendo bene — dice Shadrach. — Come al solito.

Lei lancia un’occhiata alla fasciatura sulla mano sinistra di Shadrach. — E tu?

— Fa un po’ male. L’impianto era un po’ più grande degli altri. Più complesso. Ancora un giorno o due e non lo sentirò più.

— Sono contenta che tutto sia andato bene.

— Sì. Grazie.

Ripercorrono il rituale dei sorrisi forzati.

— È bello vederti — dice lui.

— Sì. È molto bello vedere te.

Stanno zitti. Ma sebbene la conversazione si sia spenta, nessuno dei due accenna ad andarsene. Shadrach si sorprende notando quanto la bellezza di lei non gli faccia il minimo effetto oggi: Nikki è splendida come non mai, ma lui non prova niente, assolutamente niente, solo una specie di ammirazione astratta, come un sentimento che potrebbe provare per una statua di marmo o per un tramonto spettacolare. Shadrach si mette alla prova. Richiama alla mente dei ricordi. Il fresco delle cosce di lei contro le sue labbra. Quei seni sodi racchiusi a coppa nelle sue mani. Il sospiro di piacere, spingendosi dentro di lei. La fragranza del torrente scuro della chioma di Nikki. Niente. Le conversazioni che duravano tutta una notte, quando c’era così tanto da raccontarsi. Niente. Niente. E così che il tradimento incenerisce l’amore. Ma lei resta bellissima.

— Shadrach…

Shadrach resta in attesa. Lei si sta sforzando di trovare le parole. Lui ha il sospetto di sapere cosa vorrebbe dire: vorrebbe dirgli ancora una volta che le dispiace, che non aveva scelta, che anche se l’ha tradito è stato solo per un senso di inevitabilità di quel che sarebbe successo. È un momento di imbarazzo interminabile.

Alla fine lei dice: — Al Progetto stiamo andando bene.

— Ho sentito.

— Io devo andare avanti, lo sai. Non c’è altro modo per me. Ma tu devi capire che io spero che non venga mai usato. Voglio dire, si tratta di ricerche preziose, è una conquista importantissima per la scienza, ma io voglio che rimanga solo una conquista da laboratorio, solo un… un…

Non riesce più a parlare.

— Va bene — le dice Shadrach, e sente una strana dolcezza insinuarsi nella sua stessa voce. — Non tormentarti con questa faccenda, Nikki. Fa’ il tuo lavoro, fallo bene. Non ti devi preoccupare di nient’altro. Fa’ il tuo lavoro. — Per un istante, un istante soltanto, sente un guizzo di quel che ha provato per lei un tempo. — Non preoccuparti per me — dice con dolcezza. — A me andrà tutto bene.

Al terzo giorno la fasciatura abbandona la mano. Non c’è che una debole linea rosa a contrassegnare il posto in cui è stato inserito l’impianto chirurgico, un solco appena percettibile contro il rosa più scuro del palmo. Come il suo signore, Shadrach è uno che guarisce rapidamente. Flette la mano (un lieve dolore muscolare), stando attento a non stringerla in un pugno. Non è ancora pronto a sperimentare il nuovo congegno.

Alla fine della settimana, con Gengis Mao che si sta rimettendo rapidamente, Shadrach si concede una serata a Karakorum. Ci va da solo, in una piacevole serata estiva, con l’odore dei fiori da poco sbocciati e la pioggia che si annuncia da lontano, e prende un cubicolo nel padiglione del sogno di morte; si spoglia e si cinge i fianchi col panno, si fascia il petto con le strisce colorate, prende il talismano lucente dalle mani della guida dalla testa di leonessa, osserva il disegno di linee spiraleggianti, si perde nell’allucinazione. Ancora una volta, muore. Abbandona speranza, paura, preoccupazione, sgomento, ansietà, bisogno; rinuncia al respiro e alla vita, muore sfuggendo al mondo e rinasce in un altro luogo, si eleva al di sopra del suo guscio vuoto e consumato, lo guarda dall’alto, quella forma vuota bruna e allungata che come un ragno proietta al di fuori arti inutili, inerti, e se ne fluttua fuori, nella fragranza del vuoto, dove il tempo e lo spazio sono stati liberati dai loro ormeggi. Tutto gli è accessibile, perché è morto. Entra in una città di carretti trainati da buoi, di vicoli, di bassi edifici di legno che formano labirinti vasti e impenetrabili, un luogo di squallore pittoresco e di sporcizia medievale, e vede i cavalieri e le dame nelle loro vesti di broccato verde e scarlatto: inciampano nelle strade di terra battuta priva di pavimentazione, ululano, singhiozzano, tremano, sudano, piangono dinanzi al Signore, stringono nelle mani le parti che pulsano rigonfie, sotto le braccia e in mezzo alle gambe. Sì, sì, la Morte Nera, e Shadrach si aggira in mezzo a loro dicendo: “Io sono Shadrach, colui che guarisce, venuto dalla terra dei morti per salvarvi”, e tocca i loro gonfiori di fuoco, li fa alzare in piedi, li restituisce alla vita, e loro cantano inni al suo nome. Si sposta in un’altra città, un luogo di bambù e di seta, di giardini ricchi di crisantemi e ginepri e piccoli pini contorti, e nell’immobilità del giorno una palla di fuoco esplode nel cielo, una grande nuvola della forma di un fungo si gonfia verso la volta celeste, le case s’incendiano, la gente si affolla nelle strade che bruciano, gente piccola di corporatura, dagli occhi a mandorla, la pelle gialla, e Shadrach, in piedi come una torre d’ebano in mezzo a loro, in tono dolce dice loro di non aver paura, dice che è solo un sogno ciò che li affligge, che il dolore e perfino la morte possono essere respinti, e protende le mani verso di loro, dando loro sollievo, prosciugando il fuoco che li tortura. Il cielo si riempie di cenere e fuliggine e lapilli e ancora una volta è la notte di Cotopaxi, il vulcano ruggisce, sibila, ronza, l’aria si fa veleno, e il giovane medico nero si inginocchia per strada, soffiando nella bocca di chi è caduto a terra, aiutandoli a rialzarsi, dando loro conforto. Poi prosegue oltre. Le orde assire scorrono le strade di Gerusalemme, ululando, sventrando senza pietà, e Shadrach ricuce pazientemente i corpi martoriati dei caduti, dicendo: “Alzatevi, camminate, io sono colui che guarisce”. Le grandi bestie lanuginose fuggono dalle nevi che si sciolgono sotto il sole, fattosi improvvisamente colossale, la gente delle caverne diventa smagrita e gracile, e Shadrach insegna loro a nutrirsi di erbe e di semi, a raccogliere le bacche dei roveti che hanno appena germogliato, a tendere sbarramenti attraverso le correnti per prendere in trappola i pesci vivaci, e questa gente lo adora e dipinge la sua immagine sulle pareti della caverna sacra. Shadrach toglie Gesù dalla croce quando i soldati romani se ne vanno alla taverna, caricandosi il corpo inerte su una spalla e recandosi in tutta fretta in un capanno oscuro, dove ripulisce del sangue le mani e i piedi feriti, applica medicamenti e unguenti, prepara una mescola di erbe e succhi e Gliela porge da bere perché guarisca, dicendoGli: “Va’. Cammina. Vivi. Predica”. Con una rete ricupera dalle acque del Nilo i frammenti del corpo di Osi ride, ricongiunge le membra lacerate, soffia la vita nel dio caduto e convoca Iside, dicendole: “Ecco Osiride. Io, Shadrach, lo restituisco a te”. Il cielo si fa verdeggiante, con strane raffiche di pioggia, e la Guerra Virale scoppia al di sopra delle città del genere umano, e la decomposizione misteriosa penetra i corpi dei membri del genere umano, la gente si lamenta e cade a terra e Shadrach li fa rialzare, dicendo: “Non temete niente. La morte è passeggera. La vita vi attende”. E nei cieli vi è il volto sorridente di Gengis Mao. Shadrach va alla deriva attraverso i secoli, si muove libero per il tempo e lo spazio, e gradualmente si accorge di non essere più solo, si rende conto che c’è una donna al suo fianco: lo tira per la manica, sta cercando di dirgli qualcosa. Lui la ignora. Sente cori celestiali che cantano il suo nome: — Shadrach! Shadrach! — E le voci celestiali gridano: — O Shadrach! Tu sei davvero colui che guarisce, sei il principe dei principi! Eri Shadrach, sarai Gengis! Tutti rendano onore a Shadrach! — E una voce di tuono prorompe: — Sarai conosciuto d’ora in poi col nome di Gengis III Mao V Khan!