…morendo…?
Sì, sta morendo. È questo il prodotto offerto qui, la morte, l’effettiva esperienza dell’andarsene dalla vita, del sentire la vita che se ne va. Non riesce più a sentire il proprio corpo. È al di là di ogni sensazione esterna. Questa è la morte, pura e semplice, quell’addio definitivo verso il quale la sua vita ha marciato fin dall’inizio dei giorni; non è una simulazione, non è un trucchetto ipnotico, è la morte reale e concreta, la dipartita di Shadrach Mordecai. Naturalmente, a un livello più profondo sa che si tratta solo di un sogno, l’intrattenimento di una serata comprato per capriccio; ma al di sotto di quella consapevolezza c’è la comprensione del fatto che forse sta sognando di sognare, sta sognando il talismano e la tenda e la ragazza-leonessa, forse è davvero sprofondato nell’illusione di un’illusione e sta davvero morendo qui stanotte. Non ha importanza.
Com’è facile morire! Attorno a lui c’è una nebbiolina grigia, fresca e umida, e tutto si dissolve in essa, Anubi e Thoth, Katya e la sacerdotessa, la tenda, l’amuleto, lui stesso, invaso e penetrato dal grigio fino a diventarne parte. Fluttua verso il centro del vuoto. È questo che Gengis Mao teme a tal punto? Essere un pallone d’aria e nient’altro che un pallone d’aria, trasformati in elio circondato da un involucro inesistente, accantonare tutte le responsabilità e, totalmente liberati, fluttuare per sempre? Gengis Mao è così pesante. Tutto quel peso. Potrebbe risultargli difficile abbandonarlo. Non è così per Shadrach. Attraversa il centro e riemerge dall’altra parte, coagulandosi con facilità appena uscito dalla nebbiolina e riprendendo la forma umana. Adesso è assolutamente nudo, neanche uno straccio a cingergli i fianchi. Katya, nuda anch’essa, è in piedi accanto a lui. I loro corpi giacciono abbandonati ai loro piedi, rilassati, inerti, apparentemente addormentati, danno perfino l’illusione di un lento respirare ritmico, ma non è così: sono davvero morti, realmente e autenticamente morti. Shadrach Mordecai osserva il suo stesso cadavere.
— Com’è tranquillo qui — dice Katya.
— E pulito. Hanno lavato il mondo, apposta per noi.
— Dove preferisci andare?
— Dovunque.
— Il circo? La corrida? Il mercato? Dovunque?
— Dovunque — dice Shadrach. — Sì. Andiamo dovunque.
Senza alcuno sforzo, fluttuano per il mondo. La leonessa li saluta con un gesto di congedo. L’aria è dolce e balsamica. Gli alberi sono in fiore, fiori di fuoco, piccoli calici di fiamma che sbocciano alle estremità dei rami; si liberano e scendono dolcemente giù, volteggiano, si avvicinano a loro, li toccano, sprofondano dolcemente nei loro corpi. Shadrach osserva il passaggio di un bocciolo rosso fuoco attraverso le ossa del petto di Katya; emerge tra le spalle, cade con leggerezza al suolo, libera il seme, sboccia. Un alberello magro sorge e si trasforma in un fiore fiammeggiante. Shadrach e Katya ridono come bambini. Attraversano insieme il continente. Le sabbie del Gobi risplendono. La Grande Muraglia si stende davanti a loro, un serpente di pietra che si contorce e si inarca.
— Ehi, sono Jim il Negro e la Piccola Nell! — esclama Ch’in Shih Huang Ti, che si erge in alto sulla Muraglia. Si esibisce in una piccola danza di gioia, togliendosi la papalina di seta nera, lasciando svolazzare le lunghe trecce elaborate.
— Chop-chop — dice Shadrach. — Kung po chi ding!
— Dov’è l’uscita? — chiede Katya.
— Per di là — dice il Primo Imperatore. — Dopo le catene, oltre la griglia di ferro.
Passano il cancello. Dall’altra parte della Grande Muraglia ci sono risaie, l’acqua risplende nella luce rosa del tramonto. Delle donne in ampi vestiti neri e ampi cappelli di paglia si muovono con lentezza nell’acqua che raggiunge le ginocchia, si chinano, seminano, si chinano, seminano. Un coro invisibile fuori campo. Il crescendo imponente di un suono celestiale. Katya raccoglie una ricca manciata di fango giallo e glielo scaglia contro. Glop! Anche lui le lancia del fango. Glip! Si impiastricciano a vicenda e si abbracciano, si agitano sinuosi e scivolosi. La dolcezza di questa fanghiglia! Ridono; scalpitano; inciampano e vacillano, atterrano nella risaia alzando spruzzi d’acqua, e le donne cinesi danzano attorno a loro. Huang! Ho! Le gambe di Lindman gli si stringono intorno ai fianchi. Cosce come tenaglie. Lei si protende verso di lui. Si accoppiano nel fango come bufali nella stagione degli amori. Si tengono stretti, si rotolano. Ansimano. Carne contro carne, sguazzano nella melma primordiale. Molto gratificante. Nostalgia del fango. Pancia contro pancia. Shadrach non percepisce il suo organo come qualcosa che appartenga a lui in particolare, piuttosto si tratta di qualcosa che hanno in comune, una verga indipendente che li connette, passando avanti e indietro in uno scambio agile tra i loro corpi avvinti. Senza aver raggiunto un culmine si alzano, si bagnano nell’acqua, vanno oltre, verso New York. Un vento caldo soffia in questa città, tra le torri che si ergono come pugnali contro il cielo. Su di loro cala un acquazzone di coriandoli; pungono, bruciano. Urla festose degli abitanti. A tutti, qui, gli organi stanno marcendo, ma il male è accettato; non causa allarme. I corpi dei newyorkesi sono trasparenti, e Shadrach vede il rosso delle lesioni all’interno, le aree di corruzione e decadimento, le eruzioni e le suppurazioni di intestino, polmoni, tessuto vascolare, peritoneo, pericardio, milza, fegato, pancreas. Il male si annuncia con onde di pulsazione elettromagnetica a bassa frequenza, colpisce l’anima con martellate regolari e insistenti, rosso, rosso, rosso. Questa gente è piena di buchi da capo a piedi, ma è contenta; e perché non dovrebbe esserlo? Shadrach e Katya svoltano nella Fifth Avenue. La pelle di Shadrach è bianca. Le sue labbra si sono fatte sottili. I capelli sono lisci e lunghi; gli svolazzano davanti alla faccia, togliendoli a tratti la visuale, e quando se li scosta dagli occhi si accorge che Katya ora è nera. Col naso ampio e piatto, splendidamente steatopigia, è coperta di una pelle color del cioccolato. Labbra di rubino, più dolci del vino. — Pun! - grida.
— Tang! - replica lui.
— Hot!
— Cha!
Danzano sul filo di spade taglienti. Danzano sugli ananas. Lui la vende schiava e la riscatta con il suo primogenito.
— Siamo morti? — le chiede. — Veramente morti?
— Come pietre.
— Non doveva essere una cosa meno divertente?
— Ti stai divertendo? — gli chiede lei.
Sono in Messico. Piante tropicali. È primavera: i cactus sono in fiore, Piccole torri spinose verdi, sormontate da ciuffi folli di fragranti petali gialli. Anelli e corone di spinosità esplodono come fuochi artificiali rossi e bianchi. Shadrach e Katya vagano come sonnambuli tra frutti irti di pungiglioni, tra le pitahaya. Il ritmo è frenetico, ma loro non sono minimamente affannati. Spesso si fermano a fare l’amore. Lui potrebbe ballare tutta la notte. Passando i Pirenei, incontrano Pancho Sanchez, tozzo e sporco, che offre loro un vino verdognolo versato da una bota di pelle, e ridacchia quando se lo versano addosso. Pancho lecca via il vino dai seni di Katya. Lei gli dà una spinta, con allegria, e lui si piroetta fino in Andorra. Lo seguono. In loro onore il popolo adorante fa coniare delle monete commemorative di grande valore. — Credevo che la morte fosse una cosa più seria — dice Shadrach.