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— Lo è.

Morti, possono andare dappertutto, e così fanno. Ma il viaggio è vuoto, e il cibo al banchetto è un cotone fatto d’aria, meno dolce dello zucchero filato. Shadrach chiede più sostanza, e un servitore gli porta delle pietre. È tornato nero, e nero è anche Gengis Mao, seduto su un trono di giada luccicante dieci metri più in alto. Ficifolia è nero, Buckmaster, Avogadro, Nikki Crowfoot; Mangu è il più nero di tutti; ma il nero delle loro pelli non è il nero della razza nera, non è il nero africano, è un nero nero, nero ebano, il colore di uno sgabuzzino oscuro, il colore dell’aria che separa i mondi. Nero come il pozzo. Hanno l’aspetto di esseri venuti da un’altra galassia. Shadrach va verso di loro, batte le mani contro le loro, i gomiti si sfiorano. Parlano negro-mongolo tra loro, ridono e cantano, si agitano e si muovono. Ficifolia è alla chitarra, Buckmaster al trigono, Avogadro al banjo; Shadrach suona i bonghi, Katya il tamburello.

Liberati del corpo

Esci dalle ossa.

È così… facile morire…

Un trip… che mi prende troppo bene…

Yeah, yeah, yeah, yeah.

— Non è veramente così bello — dice Shadrach a Katya. — Ci stiamo prendendo in giro da soli.

— Ha i suoi pregi.

— Non riesco a evitare di essere diffidente.

— Neanche da morto riesci a lasciarti un po’ andare, vero? — Lo prende per il polso e lo trascina via con sé, attraverso un deserto di sabbie scintillanti, attraverso un fiume di bianca acqua gorgogliante, attraverso un folto roveto aromatico, dentro all’oceano, la grande madre salata, e si sdraiano sul dorso a riposare, gli occhi volti al sole. Shadrach si è calmato completamente.

— Quanto tempo dura?

— Va avanti per sempre.

— Quando finisce?

— Non finisce.

— Davvero?

— È nella natura di questo stato. La morte non è altro che la continuazione della vita con altri mezzi.

— Non ci credo. “Dopo la morte, nulla”.

— E allora dove saremmo?

— Stiamo sognando.

— Lo stesso sogno? Non essere sciocco.

Degli squali mettono il muso fuori dalla calma superficie del mare. Occhieggiano fauci, denti aguzzi. Shadrach si esercita a restare intrepido. Queste bestie non gli possono fare alcun male. Dopotutto, è morto. È anche un dottore in medicina. Inghiotte oceano fino a che il fondo di sabbia lucida non è messo a nudo, e gli squali arenati si dibattono cupi di qua e di là, mordicchiando granchi e stelle marine. Shadrach ride. La morte è reale, la morte non imbroglia! Dal nord scendono venti ghiacciati, ruggiscono giù per i fianchi dell’Himalaya. Continuano infaticabili l’ascesa del North Cwm, artigliano la parete rocciosa chiodo dopo chiodo; fissano costantemente il picco lontano, che sorge formidabile, come una pustola gigantesca all’inizio della vallata. Rabbrividiscono nelle giacche a vento; stringono le piccozze nelle mani stanche; le bombole di ossigeno premono insistenti contro le spalle doloranti; ma loro continuano ad arrampicare, sono ormai in quel mondo turbinoso sopra ai settemila metri, dove solo gli yeti dai piedi piatti osano avventurarsi. Sono arrivati in vista della vetta. Dei vasti crepacci occhieggiano, ma non hanno significato; là dove ramponi e chiodi non sono d’aiuto, Shadrach e Katya si lanciano semplicemente in giganteschi balzi che solcano il cielo. È troppo facile. Shadrach non credeva che la morte fosse un posto tanto frivolo. E ora il cielo si sta scurendo, il ritmo si fa più lento; sente musica solenne, sperimenta un affievolirsi degli impulsi frenetici che l’hanno spinto fino a questo momento, in lui subentra una calma glaciale, un’atemporalità egizia. È una cosa sola con Ptah e Osiride. È un Mennone melodioso in riva al fiume divino, che aspetta mentre scorrono gli eoni. Katya gli strizza l’occhio, e nello sguardo che lui le restituisce c’è del rimprovero. La morte è una faccenda seria, non una vacanza. Ah, sì, ora l’ha preso, il ritmo giusto. È completamente assorbito dal compito di essere morto. Non si muove. Segnali vitali, zero; funzioni intellettive, zero; è arrivato al cuore dell’evento. Hic iacet. Nascentes morimur, finisque ab origine pendet. Mors omnia solvit. Del suono di tromboni qui, per favore. Missa pro defunctis. Requiem Æternam dona eis, Domine. È molto tranquillo, qui. Quando parlano, se parlano, lo fanno in sanscrito, in aramaico, sumero, oppure, naturalmente, in latino. Thoth, quanto a lui, parla latino. Senza dubbio sa parlare anche altre lingue, ma anche gli dei hanno i loro capricci. Com’è dolce starsene immobile a pensare, se proprio si vuole pensare, solo in lingue che non si capiscono più! Nullum est iam dictum quod non dictum est prius. Come suona bene questa! Per cortesia, appena più alto il volume dei corni di bassetto:

Dies irete, dies illa

Solvet sœculum in favilla

Teste David cum Sybilla.

A poco a poco le voci calano di volume. La musica sfuma, facendosi soffusa e astratta; il suono degli strumenti ora è vuoto, non è che un profilo di suono, niente dentro, l’idea di suono piuttosto che il suono stesso, e il coro, lontano lontano, canta le parole terribili dell’antica preghiera in un tono debole, tremolante, sussurrato, elegante; un tono intenso e penetrante:

Quantus tremor est futurus

Quando Judex est venturus

Cuncta stricte discussurus!

E poi, tutto è silenzio. Ora Shadrach è in pace. Ha raggiunto l’essenza del sogno di morte, ha posto fine agli sforzi e gli affanni, ha posto fine alle ricerche. La corsa è finita. Se solo lo volesse, potrebbe andare a Bangkok, ad Addis Abeba, San Francisco, Bagdad, Gerusalemme, viaggiare non richiederebbe più sforzo di quanto non ne richieda un batter di palpebre: ma non c’è motivo di andare da nessuna parte, perché tutti i posti sono divenuti uno solo, ed è meglio restare qui, a un punto di stasi, immobili, avvolto nel vello morbido, dolce, accogliente della tomba. Consumatum est. Shadrach è in perfetto equilibrio. È finalmente, autenticamente morto. Sa che dormirà per sempre.

All’istante si sveglia. La sua mente è sgombra, viva, dolorosamente attenta. La passione gonfia il suo pene, se non è passione è la forza cieca che si impossessa degli uomini nei sogni; in un modo o nell’altro, preme spudorato contro il panno che copre l’inguine di Shadrach, gli crea in grembo una piccola piramide. Katya giace a poca distanza, appoggiata sui gomiti, lo guarda. Il suo sorriso è quello della Sfinge. Shadrach vede la carne dell’ampio sedere nudo, i glutei sodi e densi, e in un attimo la tranquillità del sogno di morte è sparita; la lussuria lo governa. — Andiamo — dice rauco.

— Va bene.

— L’ostello degli amanti non è lontano.

— No. Non lì. — Katya si sta già rivestendo. La guida-leonessa è appena più in là, accoglie un gruppo di nuovi arrivati. L’aria nitida confonde Shadrach. Anubi e Thoth occhieggiano ancora da qualche parte nei paraggi, ne è convinto. Lotta per ricuperare quell’equilibrio scomparso, per ritrovare quel punto di stasi, ma sa che saranno necessarie molte altre sessioni di sogno di morte prima che sia in grado di raggiungere quel posto calmo senza bisogno di esservi condotto.

— Dove? — chiede.

— Alla torre. Odio fare l’amore in una camera presa in affitto. Non lo sapevi?

Dunque Shadrach deve frenare le sue voglie ancora per un’ora o due. Forse è quella la lezione del sogno di morte: rimandare la gratificazione, purificare lo spirito. O forse no. È una scossa, passare dall’ambiente illuminato della tenda del sogno di morte all’oscurità che c’è fuori, e la notte è fredda; molto fredda perfino per il maggio mongolo, la neve è appena annunciata nell’aria, pochi fiocchi piccoli e rigidi che volano nella brezza. Sul treno sotterraneo che li riporta indietro non si parlano quasi, ma poco prima di entrare nella stazione di Ulan Bator lui le chiede: — C’eri davvero?