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— Cara moglie mia, che Dio ti benedica, di’ a questo pezzo d’immondizia che in casa mia, finché io sono vivo, nessuno punta i ferri sulla mia faccia о su quella dei miei amici… Chiedigli cosa vogliono, e per amore di Cristo che mettano giù le sputafuoco, altrimenti qualcuno rimarrà bucato.

Mia nonna ha cominciato a ripetere al poliziotto le parole di mio nonno, e anche se quello annuiva col capo per far capire che aveva già sentito tutto, lei non si è fermata, per seguire fino in fondo la tradizione. Questa cosa sapeva tanto di finto, di recita, però si trattava di una recita che andava recitata, era una questione di dignità criminale.

— Mettetevi tutti con la faccia a terra, abbiamo un ordine di arresto per… — Il poliziotto non è riuscito a finire la frase, perché mio nonno con un sorriso largo e un po’ cattivo, cioè con il suo sorriso di sempre, lo ha interrotto, rivolgendo la parola a mia nonna:

— Per la passione del Nostro Signore Gesù Cristo, che è morto e risorto per noi peccatori! Svetlana, amore mio, chiedi a questo stupido sbirro se lei e le sue amiche sono venute per caso dal Giappone.

Mio nonno ha usato il modo con cui di solito i criminali umiliano i poliziotti: parlare di loro come di femmine. Tutti i criminali hanno fatto una risata. Intanto nonno continuava:

— Non mi sembrano giapponesi, quindi non hanno la stoffa dei kamikaze… Perché pensano di poter entrare nel cuore di Fiume Basso armati, in casa di un criminale onesto, mentre lui condivide momenti di felicità con altra buona gente?

Il discorso di mio nonno si stava trasformando in quella che i criminali chiamano «canzone», cioè in quell’estrema forma di comunicazione con i poliziotti che si verifica quando un criminale si mette a parlare come se stesse facendo un ragionamento da solo, tra sé e sé. Insomma, nonno esprimeva quello che aveva dentro, senza preoccuparsi di rispondere alle possibili domande о di stabilire qualsiasi contatto. Il che capita quando si vuole far credere ai poliziotti che quel lo che si sta dicendo è la sola verità, che non esistono scappatoie.

— Perché vedo gente disonesta con le facce coperte? Perché questa presenza oscura viene qui a disonorare la mia casa e la buona fede dei miei famigliari e dei miei ospiti? Qui, nella nostra terra di gente semplice e umile, di servitori del Nostro Signore e della Madre Chiesa ortodossa siberiana, perché vengono questi sputi di Satana, a ferire i cuori delle nostre amate donne e dei nostri cari bambini?

Nella stanza intanto era entrato correndo un altro poliziotto, che si era rivolto al suo superiore:

— Compagno capitano, permettetemi di dichiarare!

— Dichiara, — ha risposto un uomo basso e tarchiato, con una voce che sembrava venire dall’aldilà. Teneva il fucile puntato sulla nuca di mio padre, che con un cinico sorriso continuava tranquillamente a sorbire il suo tè e a masticare con un rumore discreto le caramelle di noci fatte in casa da mia madre.

— Fuori è pieno di gente armata, hanno bloccato tutte le vie d’accesso alle macchine e hanno preso in ostaggio la pattuglia che sorvegliava i mezzi!

Nella stanza è calato il silenzio, un silenzio lungo e pesante. Si sentivano solo due rumori sordi: quello delle caramelle masticate da mio padre e il leggero fischio dei polmoni marci di zio Vitalij.

Ho guardato gli occhi di un poliziotto che stava vicino a me, attraverso i fori del cappuccio lo vedevo sudare e impallidire. Mi ha ricordato la faccia di un cadavere che avevo visto qualche mese prima, ripescato dai miei amici al fiume: aveva tutta la pelle bianca con le vene nere, e occhi che sembravano due fossi profondi e sporchi. Aveva anche un buco in fronte, qualcuno gli aveva sparato in testa. Beh, il poliziotto non aveva nessun buco, però credo che in quel momento noi due, io e lui, pensavamo proprio la stessa cosa: a come ci sarebbe stato sulla sua fronte un bel buco, e anche se devo dire che a me personalmente questo pensiero non faceva nessun effetto, il mio incappucciato vicino invece era visibilmente molto preoccupato.

All’improvviso la porta di casa si è aperta e, spostando di peso il poliziotto che aveva appena pronunciato il rapporto fatale, hanno fatto il loro ingresso l’uno dopo l’altro sei uomini armati, amici di mio padre e di mio nonno. Il primo era zio Trave, che era anche il Guardiano della nostra zona, gli altri erano i suoi aiutanti più stretti. Mio nonno, ignorando ormai completamente la presenza dei poliziotti, si è alzato ed è andato incontro a Trave.

— Cristo Santo e tutti i parenti benedetti! — ha detto Trave abbracciando mio nonno e stringendogli con affetto la mano.

— Nonno Boris, grazie al cielo nessuno si è fatto male!

— Ma tu guarda, Trave, che tempi! Non possiamo stare tranquilli nemmeno nelle nostre case!

Trave ha cominciato a parlare a mio nonno come se stesse facendo un riassunto dell’accaduto, e invece le sue parole erano destinate alle orecchie dei poliziotti:

— Ma non c’è da disperare, nonno Boris! Siamo tutti qui con te, come sempre nei momenti di felicità e di difficoltà… Lo sai, caro mio, senza il nostro permesso nessuno entra о esce da casa nostra, soprattutto se ha intenzioni disoneste…

Trave si è avvicinato al tavolo e uno a uno ha abbracciato tutti i criminali presenti. Mentre li abbracciava e li baciava sulle guance, li salutava con il tipico augurio siberiano:

— Pace e salute a tutti i fratelli e agli uomini onesti!

Quelli gli rispondevano come vuole la tradizione:

— Morte e maledizioni agli sbirri e agli infami!

I poliziotti non potevano fare nient’ altro che assistere a quella toccante cerimonia di saluto. Ormai i loro fucili erano bassi come le loro teste.

Gli assistenti di Trave, comunicando attraverso le donne presenti, hanno intimato ai poliziotti di abbandonare la casa.

— Adesso io mi auguro che gli sbirri qui presenti lascino questa casa e non tornino mai più. Noi teniamo i loro amici, quelli che abbiamo preso per primi, e quando loro se ne andranno dal quartiere li lasceremo andare via in pace… — Trave parlava con voce molto calma e pacifica, e se non fosse stato per il contenuto, dal tono si poteva pensare che stesse raccontando una cosa dolce e tranquillizzante, come una fiaba ai bambini prima del sonno.

I poliziotti erano terrorizzati, dalla finestra della stanza vedevano il cortile pieno di gente armata fino ai denti.

I nostri amici hanno creato con i loro corpi un corridoio attraverso il quale uno a uno i poliziotti hanno iniziato a passare a testa bassa.

Io mi sentivo pieno di sentimenti positivi, mi veniva voglia di ballare, gridare, cantare ed esprimere qualcosa di grande che non riuscivo ancora a capire. Sentivo di far parte, di appartenere a un mondo forte, e mi sembrava che tutta la forza di quel mondo si trovasse dentro di me.

Non so come e perché, ma a un certo punto sono saltato giù dalla panca correndo come un pazzo verso la stanza principale, dove c’era l’angolo rosso. Sulla mensola, sopra un fazzoletto rosso con ricami dorati, c’erano le pistole di mio padre, di mio zio, di mio nonno e dei nostri ospiti. Senza pensare ho preso la mitica Tokarev di mio nonno e sono corso dietro ai poliziotti, puntandogliela contro. Non so che cosa di preciso passava nella mia testa in quell’istante, l’unica cosa che sentivo era una specie di euforia, di gioia di esistere.

I poliziotti stavano lentamente muovendosi verso l’uscita. Mi sono fermato davanti a uno di loro e l’ho fissato: i suoi occhi erano stanchi e sembravano infiammati, lo sguardo era triste, desolato. Ricordo che per un momento ho sentito su di me tutto il suo odio. Ho mirato alla faccia, ho cercato di premere il grilletto con tutte le mie forze, ma non riuscivo a muoverlo di un millimetro. La mia mano diventava sempre più pesante e non ero in grado di tenere la pistola abbastanza in alto. Mio padre ha cominciato a ridere, chiamandomi: