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Una picca conserva i suoi poteri solo se si trova nelle mani di un criminale siberiano che la usa rispettando le regole della comunità criminale; se una persona indegna si appropria di una picca non sua, quella gli porterà sfortuna: da qui il nostro modo di dire «rovinare qualcosa come la picca rovina un cattivo padrone».

Quando un criminale è in pericolo, la sua picca lo può avvertire in molti modi: la lama scatta improvvisamente da sola, о diventa calda, о vibra; qualcuno ritiene che sia persino in grado di emettere un fischio.

Se una picca si rompe, significa che da qualche parte c’è un morto che non trova pace e allora si fanno offerte alle icone о si ricordano nelle preghiere parenti e amici morti, si visitano i cimiteri, si ricordano i morti parlando di loro in famiglia, raccontando di loro soprattutto ai bambini.

Per tutte queste ragioni, alla parola «picca» mi si sono accesi gli occhi. Possederne una significa essere premiati dagli adulti, avere qualcosa che ti lega per sempre al loro mondo.

La domanda che mi aveva fatto Riccio era un chiaro segnale che stava per succedermi una cosa pazzesca, a me, un bambino di sei anni. Un mitico criminale stava per regalarmi una picca, la mia prima picca. Non speravo, non potevo neanche immaginare una cosa del genere, e invece cosi, all’improvviso, avevo davanti a me la possibilità di possedere quel simbolo sacro, che per la gente che ha ricevuto l’educazione criminale siberiana è una parte dell’anima.

Cercando di nascondere l’agitazione, ho fatto una faccia indifferente, però non credo che mi è riuscita bene, perché tutti e tre mi guardavano sorridendo. Pensavano di sicuro alla loro prima volta, alla loro prima picca.

— Non ce l’ho, — ho detto con la voce durissima.

— Allora aspetta un momento che arrivo… — con queste parole Riccio è entrato in casa. Io stavo esplodendo dalla felicità, dentro di me suonava un’orchestra, sparavano fuochi d’artificio e si sentivano miliardi di voci d’euforia. Ero come ubriaco, stavo per scoppiare.

Riccio è tornato subito, si è avvicinato, mi ha preso la mano e ci ha messo dentro una picca. La picca.

— Questa è tua, che il Signore ti aiuti e la tua mano diventi forte e decisa…

Da come mi guardava, era evidente che era contento anche lui.

10 invece guardavo la mia picca e non credevo fosse vera. Era più pesante e più grande di quanto avessi immaginato.

Ho tolto la sicura, abbassando una specie di piccola leva, e poi ho schiacciato il bottone. Il rumore del meccanismo era musica per le mie orecchie, era come se il metallo prendesse voce. La lama scattava secca, in un attimo, con una forza immensa, e rimaneva subito ferma e dritta, stabile e fissa. Era scioccante il momento in cui quell’oggetto strano, che da chiuso sembrava un attrezzo di cancelleria dell’inizio del secolo, aprendosi prendeva una chiara, semplice e definitiva forma di arma bellissima e graziosa, sottile, con una certa nobiltà e fascino.

11 manico era di osso nero — cosi da noi chiamano le corna del cervo reale, marroni scure, quasi nere — con al centro un intarsio di osso bianco a forma di croce ortodossa. Il manico era così lungo che dovevo prenderlo con due mani, come la spada dei cavalieri medievali. Anche la lama era lunghissima, affilata da un lato e tutta lucidata a specchio. Era un’arma fantastica e io mi sentivo in paradiso.

Da quel giorno la mia autorità tra i miei amici è cresciuta a dismisura. Per una settimana ho dovuto accogliere frotte di bambini che venivano da tutto il quartiere per vedere la mia picca, casa mia era diventata una specie di luogo sacro e loro erano i pellegrini. Mio nonno li faceva entrare in cortile, offriva a tutti delle bevande fresche. Mia nonna non faceva in tempo a preparare il kvas che già era finito, allora io ho sparso la voce che erano gradite offerte in forma liquida e preferibilmente fresche, cosi chiunque voleva venire a vedere il primo ragazzo di sei anni felice proprietario di una vera picca si doveva portare dietro da bere.

Io mi sentivo veramente orgoglioso e fiero di me stesso, ma dopo un po’ mi ha preso una strana forma di depressione, mi ero stancato di raccontare la stessa storia cento volte al giorno e mostrare la picca a tutti quanti. Cosi sono andato a trovare nonno Kuzja, come ogni volta che avevo un problema о un dolore.

Nonno Kuzja era un criminale anziano che abitava nel nostro quartiere in una piccola casa davanti al fiume. Era un vecchio molto forte, aveva ancora tutti i capelli neri ed era pieno di tatuaggi ovunque, persino sul viso. Di solito mi portava in giardino per farmi vedere il fiume, e mi raccontava fiabe e varie storie della comunità criminale. Aveva una voce forte, ma parlava piano, tranquillo, così che sembrava che la sua voce arrivava da lontano, e non da dentro di lui. La cosa più impressionante erano i suoi occhi. Di colore blu, però sporco, paludoso, con un leggero accento di verde, sembravano non appartenere al suo corpo, come non farne parte. Erano profondi, e quando con calma, senza nervosismo, te li puntava addosso, sembrava che ti stesse facendo i raggi x: nel suo sguardo c’era davvero qualcosa d’ipnotico. La faccia piena di rughe era attraversata a sinistra da una lunga cicatrice, ricordo di gioventù criminale.

Insomma, sono andato a trovarlo e gli ho raccontato tutto, mettendo in chiaro che mi piaceva avere la picca, che però i miei amici mi trattavano diversamente da prima. Anche il mio caro amico Mei, con cui eravamo, come dicono da noi, «tagliati con la stessa ascia», si comportava come se fossi un’icona religiosa davanti alla quale bisognava sempre essere buoni e gentili.

Nonno Kuzja si è messo a ridere, ma senza cattiveria, e mi ha detto che non ero della taglia giusta per essere una celebrità.

Poi mi ha fatto un lungo discorso dei suoi. Mi ha consigliato di comportarmi come mi veniva. Mi ha detto che il fatto di aver avuto una picca non mi rendeva diverso dagli altri, che ero stato semplicemente fortunato a trovarmi nel momento giusto al posto giusto, e se cosi aveva voluto Nostro Signore io dovevo essere pronto per la responsabilità che mi aveva dato. Dopo il suo discorso, come sempre, mi sono sentito meglio.

Nonno Kuzja mi ha insegnato le vecchie regole di comportamento criminale, che nei tempi moderni aveva visto cambiare sotto i suoi occhi. Era preoccupato, perché diceva che tutto comincia sempre dalle piccole cose che sembrano poco importanti, e alla fine si arriva alla totale perdita della propria identità.

Per farmelo entrare nella zucca mi raccontava spesso una fiaba siberiana, una specie di metafora, il cui senso era proprio la perdita di dignità degli uomini che seguono una via sbagliata, attirati da falsi benefici.

Quella fiaba parlava di un branco di lupi che erano messi un po’ male perché non mangiavano da parecchio tempo, insomma attraversavano un brutto periodo. Il vecchio lupo capo branco però tranquillizzava tutti, chiedeva ai suoi compagni di avere pazienza e aspettare, tanto prima о poi sarebbero passati branchi di cinghiali о di cervi, e loro avrebbero fatto una caccia ricca e si sarebbero finalmente riempiti la pancia. Un lupo giovane, però, che non aveva nessuna voglia di aspettare, si mise a cercare una soluzione rapida al problema. Decise di uscire dal bosco e di andare a chiedere il cibo agli uomini. Il vecchio lupo provò a fermarlo, disse che se lui fosse andato a prendere il cibo dagli uomini sarebbe cambiato e non sarebbe più stato un lupo. Il giovane lupo non lo prese sul serio, rispose con cattiveria che per riempire lo stomaco non serviva a niente seguire regole precise, l’importante era riempirlo. Detto questo, se ne andò verso il villaggio.

Gli uomini lo nutrirono coi loro avanzi, e ogni volta che il giovane lupo si riempiva lo stomaco pensava di tornare nel bosco per unirsi agli altri, però poi lo prendeva il sonno e lui rimandava ogni volta il ritorno, finché non dimenticò completamente la vita di branco, il piacere della caccia, l’emozione di dividere la preda con i compagni.