Matt usò un paio di cesoie per tagliare la camicia inzuppata di sangue di Lewis. Kyle tornò, pose la cassetta del pronto soccorso accanto al divano, poi andò in cucina e tornò con un vasetto senza etichetta mezzo pieno di una sostanza appiccicosa, densa, pungente, color beige. Spalmò quell’unguento sul viso di Lewis e tolse il nero altrettanto pungente. Sotto la mimetizzazione, Lewis era pallido e tirato. Guardò Matt e lesse i suoi pensieri.
«Niente ospedale.»
Matt si aggiustò lo stetoscopio attorno al collo e s’inginocchiò accanto a Lewis.
«Per favore, procuratemi una scodella d’acqua calda», chiese. «Metteteci dentro del sapone, se ne avete, del sapone per stoviglie andrebbe meglio. E un asciugamano pulito.»
I fori del proiettile, per nulla aiutati dalla corsa attraverso il bosco, erano quasi del tutto coagulati, anche se il sangue fluiva ancora dal bordo della ferita d’uscita. Matt pose le mani sulla schiena di Lewis e le osservò mentre l’uomo inspirava. La parte destra si muoveva decisamente più della sinistra. Lo auscultò con lo stetoscopio e il suo sospetto venne confermato. Parte del polmone perforato di Lewis si era afflosciata. Infilò sul braccio destro di Lewis l’apparecchio per misurare la pressione e lo gonfiò per chiudere l’arteria brachiale che correva sotto la curvatura del gomito. Auscultando sopra l’arteria con lo stetoscopio, sgonfiò lentamente il bracciale, finché non sentì il sangue riprendere a pulsare attraverso il vaso. Il suono indicò il valore più alto della pressione sanguigna di Lewis, 110, equivalente alla forza necessaria per alzare una colonna di mercurio a 110 millimetri. La situazione avrebbe potuto essere peggiore, decisamente peggiore.
«Lewis», cominciò a spiegare, «il tuo polmone è collassato. L’unico modo che ho per rimetterlo in funzione è infilarti una sonda nel torace. E l’unico posto in cui posso farlo è l’ospedale.»
Lewis scosse la testa cupamente e distolse lo sguardo.
«D’accordo, d’accordo», accettò Matt. «Farò quello che posso. Frank, sopra c’è una stanzetta con un letto. Voglio che la ripuliate e che mettiate sul letto le lenzuola più candide che avete e anche due cuscini con federe pulite. Capito?»
«Dammi dieci minuti», rispose Frank.
«C’è dell’altro. Avrò bisogno di un paio di pinze puntute come un ago.»
«Ne abbiamo una.»
«E un tubo in plastica del genere che usate per travasare benzina.»
«Abbiamo anche quello.»
«Bene. Per ultimo, avrò bisogno di un guanto di gomma dalla cassetta del pronto soccorso.» Gemette. «Maledizione, non importa. Avevo tirato fuori i guanti e li avevo messi nello zaino. Senti, per quello che devo costruire, un profilattico andrà ancora meglio. Sai cosa intendo, un preservativo. Uno di voi può correre in città e portarmi una confezione da tre?»
Per un attimo cadde il silenzio, poi Lyle disse: «Ne ho qui un paio».
Matt fissò ogni fratello, mentre Lyle andava in camera da letto. Se gli Slocumb pensavano che vi fosse qualcosa di strano, con la loro espressione calma lo mascheravano bene. Sorridendo senza denti ma con orgoglio, Lyle gli porse i due preservativi. L’incarto era stropicciato ma intatto.
«Non voglio sapere nulla», borbottò Matt a nessuno in particolare. «Non voglio sapere nulla.»
In attesa che tutto fosse pronto, Matt permise a Kyle di spalmargli una sostanza appiccicosa sulla faccia.
«Uh, questa roba brucia!»
«Mi sa che hai bisogno di un rasoio nuovo, dottore», scherzò Kyle.
Appena la stanza al piano di sopra fu pronta, Lewis venne portato su. Respirava a fatica e il suo colorito si era fatto più scuro. Matt aveva letto come si eseguiva l’inserzione di una sonda nel petto in un manuale sugli interventi d’emergenza. La maggior parte dei metodi descritti da un ex portaferiti in Vietnam erano fantasiosi. Alcuni, come la toracotomia d’urgenza per l’inserzione della sonda che stava per effettuare, erano decisamente spettacolari. L’elemento principale era il profilattico. Dopo averlo srotolato e avergli tagliato via la punta, avrebbe usato del nastro adesivo per attaccare la base del preservativo all’estremità del tubo da travaso che spuntava dal petto. Il floscio tubicino in lattice avrebbe funzionato perfettamente da valvola unidirezionale, lasciando uscire l’aria dalla cavità polmonare senza farne entrare. Le dita di un guanto in gomma avrebbero forse funzionato, ma non altrettanto bene e di certo non in modo tanto pittoresco.
Le lenzuola sul letto al piano superiore, con uno scolorito motivo floreale, erano sorprendentemente pulite, e odoravano anche di pulito. Dieci minuti di bollitura avevano eliminato benzina e altre sostanze contaminanti dal tubo di travaso lungo un metro e venti, e largo sei millimetri e dalla pinza appuntita. La cassetta del pronto soccorso era completa e includeva anche un visore d’ingrandimento, filo di sutura, potenti antibiotici iniettabili e Xylocaina, un anestetico locale. Matt pulì i fori del proiettile, li spalmò di pomata antibiotica e li ricoprì con garze. Utilizzò quindi la Xylocaina per rendere insensibile la zona sopra e sotto la ferita d’uscita.
«Lewis», spiegò Matt, «cercherò di addormentare questa zona quanto più posso, ma farà ugualmente male.»
«Più o meno di quando sono stato colpito?»
«Bella domanda.»
Usò un bisturi per forare la pelle resa insensibile, quindi tagliò un’estremità del tubo a punta.
«Trai un profondo respiro, Lewis, poi trattienilo e rilassati», disse. «Ecco, ora!»
Stringendo il più possibile l’estremità del tubo nella pinza dal becco appuntito, introdusse la pinza finché non la sentì toccare la costola. La fece poi scivolare dietro la costola, la spinse attraverso il muscolo intercostale fin nello spazio creatosi quando il polmone era collassato. Lewis, la fronte madida di sudore, gridò dal dolore, poi giacque immobile. Matt ritirò la pinza, lasciando il tubo nel torace. Per alcuni secondi ci fu un totale silenzio, poi, appena l’aria lo attraversò con una certa forza, il profilattico iniziò a palpitare.
Lewis rimase immobile, gli occhi chiusi, il respiro regolare, esausto. Matt attese per parecchi, silenziosi minuti, quindi gli auscultò il torace. Il polmone non si era ancora dilatato completamente, ma si udivano rumori respiratori dove poco prima non ve ne erano. Si chiese quanti altri avessero realmente impiegato una delle tecniche del manuale di pronto soccorso. Un giorno, a patto che lui e Lewis fossero sopravvissuti a questa prova, avrebbe scritto una lettera all’autore.
Dopo avere infilato venticinque centimetri di tubo nel petto di Lewis, lo fissò con una sutura e medicò l’apertura. Lo auscultò di nuovo. Altri suoni respiratori indicarono che il polmone si era ampliato ancora di più.
«Allora?» domandò Frank.
Matt iniettò a Lewis una grossa dose di antibiotico.
«Ecco», rispose, un accenno di stupore nella voce, «questa dannata cosa sembra abbia funzionato, almeno per il momento. Porterò via di nascosto dall’ospedale dell’ossigeno e altre cose che mi servono, e tornerò appena posso.»
Il colorito di Lewis era migliorato di colpo e lui aprì gli occhi.
«Sapevo che avevamo fatto bene a darti quei soldi quando hai bussato alla nostra porta per la colletta per la tua squadra di baseball.»
«Ti facciamo colpire da un proiettile, ti rimettiamo a posto», scherzò Matt. «È questo il nostro motto.»