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«Questi ragazzi stavano pescando proprio qui», cominciò a raccontare l’agente, «quando all’improvviso hanno visto questa donna precipitare dalla cengia sopra di loro. Uno di loro, Harris, il figlio di Percy Newley, giura di avere sentito qualcosa come uno sparo un istante prima di vedere la donna volare giù e finire in acqua.»

«Sono riusciti a tirarla fuori al primo tentativo?» domandò Matt, mentre le auscultava il torace con lo stetoscopio.

«Come, scusi?»

«Il figlio di Percy e il suo amico, l’hanno tirata fuori alla prima immersione?»

L’imbarazzata espressione dell’agente rivelò che aveva appena afferrato l’importanza di quella domanda che, ovviamente, non aveva posto.

«Harris, quanti tentativi avete fatto prima di portare su la donna dal fondo?»

«Due. Michael ci ha provato per primo, poi l’abbiamo fatto insieme. L’abbiamo tirata su per i capelli.»

«Grazie», disse Matt, preparandosi a intubarla.

Valutò che fosse rimasta sott’acqua per circa due minuti e sperò di non avere dato troppo credito ai ragazzi. Nel frattempo, Gary stava sistemando la coppetta triangolare del palloncino per la respirazione sulla bocca e sul naso della donna, mentre Kirsten inseriva un ago endovenoso. Dopo avere sistemato il tubo di ventilazione, avrebbe spostato la coppetta e collegato il palloncino direttamente al tubo endotracheale.

«Soluzione salina normale?» chiese Kirsten.

«Giusto», rispose Matt. «Vi state comportando benissimo. Grazie a questi eroi e alla buona tecnica bocca a bocca effettuata dai due agenti, questa donna ce la farà. Ha però ancora bisogno del nostro aiuto. Infilerò ora il tubo di ventilazione per farle arrivare dell’ossigeno concentrato nei polmoni. Mettiamola sulla barella, Gary, e solleviamola. Non vorrei lavorare disteso sulla pancia, con lei sdraiata a terra.»

In ospedale gli anestesisti erano le autorità dell’intubazione, avendo affinato la loro capacità centinaia di volte in sala operatoria. Durante uno dei suoi internati, Matt aveva scelto anestesia e intubato decine di casi sotto la loro guida. Negli anni successivi, aveva apprezzato quelle opportunità per una miriade di motivi. La regola principale era che, se il sanitario non eseguiva l’intervento in posizione comoda, fisicamente e mentalmente, le probabilità che l’intubazione non riuscisse aumentavano di molto. Le sciagure che capitavano più spesso erano le intubazioni esofagee invece che tracheali, il che portava al riempimento d’aria dello stomaco; la lacerazione dei tessuti della gola che causavano emorragie, che rendevano a loro volta più difficili i tentativi successivi; danni alle corde vocali, provocati nel tentativo di forzare il tubo troppo in profondità senza una adeguata visione; e infine, un’inserzione troppo profonda della cannula e l’occlusione di uno dei due condotti bronchiali.

Matt fece ciò che gli era stato insegnato e ciò che aveva poi insegnato a tanti studenti e paramedici, ma prima sprecò alcuni secondi per posizionare la sua nuova paziente e calmarsi prima di procedere. Piegò leggermente all’indietro la testa della donna, sdraiata sulla schiena, raddrizzandole il collo. Gary Lydon s’inginocchiò accanto a lui per tenere bloccata la testa in quella posizione. Ben saldo su un ginocchio e fiducioso nelle sue capacità per quanto poteva esserlo in quella situazione, Matt infilò la lama curva e illuminata del laringoscopio lungo la lingua della donna, quindi tirò la lama in su verso il mento. Tutto quello che riuscì a vedere fu acqua lacustre che sgorgava dai polmoni. Guai, forse grossi guai. Al pronto soccorso avrebbe potuto liberare le vie aeree con suzione. Qui no. Era possibile infilare alla cieca il tubo semirigido, una manovra comunque pericolosa. L’avrebbe fatto solo come ultimo espediente.

Adagio, ora, con calma.

Il colorito della donna era ancora brutto. Di secondo in secondo le cellule cerebrali venivano compromesse. Presto avrebbero iniziato a morire.

Forza, Rutledge. Mantieni la calma e non farti prendere dal panico. Lo puoi fare… Tu… lo… puoi… fare.

Trasse un profondo respiro, strinse il manico del laringoscopio e spinse la lama verso l’alto di un altro quarto di centimetro. Il movimento spostò ancora di più la lingua della vittima e sollevò l’epiglottide, la cartilagine che impedisce che i polmoni aspirino cibo o liquidi. Il lieve aggiustamento fece sì che l’acqua si ritirasse di quel tanto da esporre le due mezzelune argentee che erano le corde vocali.

Sì!

Infilò delicatamente il tubo tra le corde vocali.

«Ci siamo», esclamò, cercando, inutilmente, di suonare indifferente.

Si udì il sollievo dei due tecnici del soccorso e dei poliziotti.

«Bel lavoro», commentò uno dei due.

Matt utilizzò una grossa siringa per gonfiare il pallone fissato attorno all’estremità del tubo, e lo chiuse ermeticamente per evitare che l’aria fuoriuscisse. Kirsten Langham fissò rapidamente il pallone in lattice nero al tubo e lo collegò all’ossigeno. Nel giro di pochi secondi, il colorito grigiastro e chiazzato della donna cominciò a cambiare. Forse ce l’avrebbe fatta. Restava da vedere che cosa era successo al suo cervello.

Matt azionò il pallone di ventilazione, mentre i due paramedici spingevano la barella lungo il sentiero fino all’ambulanza. Mentre la donna veniva issata nella cabina posteriore, Matt prese da parte i ragazzi.

«Voi due avete fatto una cosa fantastica. È più che probabile che le abbiate salvato la vita.»

«È stata fortunata che fossimo lì», commentò uno dei due.

«Direi proprio di sì. Tu sei Harris?»

«Io sono Michael. Lui è Harris.»

«Capito. Due domande. In primo luogo, ripetete cosa è successo. Stavate pescando e lei è caduta in acqua proprio davanti a voi.»

«Sì.»

«Ed è andata a fondo?»

«Potrebbe essere rimasta a galla per un paio di secondi», s’intromise Michael, «ma nel complesso le cose sono andate proprio così. Mi sono immerso, ma non sono riuscito ad afferrarla prima di restare senza fiato. Poi l’abbiamo fatto insieme e l’abbiamo tirata su per i capelli.»

Due minuti, al minimo, valutò di nuovo Matt. Quattro al massimo, a seconda di quando hanno iniziato a farle la respirazione bocca a bocca e di quanto bene l’hanno fatta.

«Avete fatto la respirazione bocca a bocca?»

«È stato Harris. Io mi sono messo a chiedere aiuto a squarciagola.»

«Harris, le hai tenuto chiuso il naso?»

«Sissignore. E le ho anche inclinato la testa all’indietro.»

«Dove hai imparato a fare al respirazione bocca a bocca?»

«Ce lo hanno insegnato durante l’ora di igiene, signore. Abbiamo usato un manichino per impratichirci.»

«Non c’è che dire, siamo proprio felici che tu abbia prestato attenzione a quella lezione», scherzò. «E ora, riguardo a quegli spari?»

«Non erano spari», s’intromise Michael. «Troppo deboli. Forse era il rumore di rami spezzati o il ritorno di fiamma di una macchina sulla strada.»

«No, erano degli spari», insisté Harris. «Michael, ascolta, le pistole non fanno lo stesso rumore di un ritorno di fiamma. Ci sono stati due spari, forse tre.»

«Pronti», gridò Gary dal retro dell’ambulanza. «Kirsten l’aiuterà con il palloncino. Io guiderò.»

«Ragazzi, siete stati fantastici», ripeté il dottore. «Molte persone, inclusi medici, credono a volte di avere salvato la vita a qualcuno, mentre, in verità, potrebbero non averlo fatto. Credetemi, voi due l’avete veramente fatto.»

Saltò sull’ambulanza e salutò con la mano i due ragazzi, mentre Gary chiudeva lo sportello. Si sedette sulla panca di fronte a Kirsten e, per la prima volta, guardò attentamente la donna che per poco non moriva sotto la Niles Ledge.

Era ancora priva di sensi. Il gonfiore sopra l’occhio sinistro era pronunciato e cominciava a sbiadire. Matt lo toccò, ma non ebbe l’impressione che sotto vi fosse una frattura del cranio. L’incisione lineare sopra la tempia destra avrebbe potuto essere stata causata da una pallottola. Aveva graffi anche sulle guance e il mento, simili a quelli che si era fatto Matt solo dodici ore prima. Non era esagerato immaginarla attraversare correndo quel fitto bosco, atterrita, inseguita da qualcuno che le sparava contro.