Quelle parole erano della dottoressa Suzanne O’Connor, medico missionario. Stava lavorando a Jos, una città della Nigeria centrale, nella primavera del 1973, quando una paziente, Lila Gombazu, resa pazza dalla febbre, l’aveva graffiata e le aveva escoriato il dorso della mano, che pure era coperta da guanti di gomma.
Appartata in un angolo della biblioteca di medicina dell’Istituto Nazionale della Sanità, Ellen Kroft leggeva lo straziante racconto della O’Connor con la bocca amara e uno spiacevole nodo al petto.
La povera donna che mi aveva graffiato cadde in convulsioni il giorno seguente. Malgrado tutti gli eccezionali provvedimenti presi, iniziò a perdere sangue dal naso, dal grembo e dal retto, e morì in modo orribile, chiamando fino alla fine i suoi figli, due dei quali, anche se lei non poteva saperlo, stavano già mostrando i sintomi di quella stessa malattia. Dodici giorni dopo quell’incontro con Lila, la mia buona salute e il carico di lavoro clinico avevano relegato quell’incidente in fondo alla mia mente. Quel giorno, un lunedì, dissi a una delle infermiere che avevo il naso intasato e la gola raschiante e che pensavo mi stesse arrivando l’influenza. Il martedì fu una giornata come le altre, ma il disturbo in gola era peggiorato. Non potevo, tuttavia, assentarmi dal lavoro. L’ospedale era pieno zeppo. Presi una grossa dose di penicillina e cercai di fare scendere liquidi oltre l’infiammazione e le bianche e vive piaghe che ora mi punteggiavano il palato e la faringe.
Mercoledì stavo facendo il giro dei pazienti quando venni colta da un tremore incontrollabile e da una intensa debolezza. Il sudore m’inzuppò i vestiti come se fossi sotto un temporale. In quel momento la temperatura, presa da una delle infermiere, era a 40. Un’ora dopo ero una paziente nel mio stesso ospedale, mi lamentavo per il dolore ai muscoli e alle articolazioni, non riuscivo a ingollare liquidi a causa delle profonde e aperte piaghe in gola e sporcavo me stessa e il letto a causa di una incontrollabile diarrea. Il mattino seguente ero delirante. La febbre era salita a 41,5 malgrado tutti gli sforzi per tenerla bassa. Giacqui priva di sensi per giorni, così mi dissero, incapace di assumere cibo o liquidi, perdendo sangue rosso dal retto ed espellendo sangue anche tossendo.
Fin dall’inizio, si temette che la diagnosi fosse febbre di Lassa. La mia socia, la dottoressa Janet Pickford, fece di tutto per fare arrivare in Nigeria alcuni esperti del CDC, il Centro di controllo delle malattie, con il siero ricavato da una donna che era guarita dalla malattia e che aveva gli anticorpi circolanti. Sfortunatamente, il governo nigeriano, furioso perché quella malattia aveva ricevuto il nome del villaggio di Lassa, situato lungo il confine con il Camerun, ritardò il rilascio di visti a chiunque fosse collegato al mio caso. Finalmente, quei documenti statali vennero concessi e, al decimo giorno di malattia, mi fecero un’infusione per via venosa del siero della donna convalescente. Nel frattempo avevo ricevuto più di una dozzina di trasfusioni di sangue ed ero stata in deliquio o in coma per quasi tatto il tempo. Avevo perso, io che ero già di costituzione esile, quasi quindici chili, ed ero un ammasso di piaghe e lividi. L’urina e le feci erano piene di sangue, come il muco dal petto.
Incredibilmente, due giorni dopo avere ricevuto il siero, cominciai a migliorare. Un miracolo, dissero tutti. Pian piano, le orrende piaghe in bocca cominciarono a guarire e potei nutrirmi. Nelle due settimane successive recuperai gran parte delle forze e della voglia di vivere. Ciò che non recuperai più completamente fu l’udito, cancellato dal virus in ambedue le orecchie e che è tornato leggermente solo nell’orecchio destro. Non augurerei la febbre di Lassa a nessuno e prego che, con il tempo, venga scoperta una cura o un vaccino per questo tremendo virus emorragico.
Ellen chiuse il libro, intitolato Più vicine di quanto pensiate. Malattie infettive in un mondo sempre più piccolo, e crollò sulla sedia, gli occhi fissi su nulla in particolare. Sessantuno. Questo era il numero di casi denunciati negli Stati Uniti negli ultimi due anni. Sessantuno e oltre. Non che a Ellen importasse che i casi fossero qui o in Africa, ma, per il momento almeno, l’Omnivax sarebbe stato somministrato qui. E l’elemento Lasaject del vaccino, come era giunta a credere, era l’anello debole nella catena. Ora, il giorno dopo un incontro molto pacato ma altamente intenso nell’ufficio del dottor Richard Steinman, non ne era più tanto sicura.
La sorprendente promessa di Lynette Marquand di ritardare l’uscita dell’Omnivax, fino a che quei problemi non fossero stati risolti in modo soddisfacente, se uno solo dei ventitré esperti del comitato di valutazione del vaccino avesse espresso dei dubbi, aveva colpito la sua vita come un proiettile dirompente. Dopo la dichiarazione, Ellen aveva fatto del suo meglio per continuare il lavoro come al solito, senza riuscirci. Nemmeno ventiquattro ore dopo il discorso di Lynette, Steinman aveva chiesto di incontrarla nel suo ufficio a Georgetown. Quando era arrivata, l’illustre medico e scienziato la stava aspettando con George Poulos. In un angolo della scrivania di Steinman vi era una copia del Washington Post di quel giorno. Un titolo sulla prima pagina proclamava:
LA FIRST LADY PROMETTE DI RICONSIDERARE L’OMNTVAX, SE LA VOTAZIONE DELLA COMMISSIONE NON SARÀ UNANIME
L’articolo, che Ellen aveva letto, non la menzionava per nome, ma diceva che la discussione tra i membri della selezionata commissione sull’Omnivax sarebbe continuata fino alla votazione, che si sarebbe tenuta dopo soli tre giorni. Steinman, dotato di una certa dose di charme e di cordialità, era, tuttavia, estremamente formale, e, anche dopo quasi tre anni, si rivolgeva ai membri della commissione chiamandoli con il titolo.
«Signora Kroft», aveva esordito Steinman, «le sono grato di essere venuta qui. Spero non le dispiaccia che mi sia preso la libertà di invitare anche il dottor Poulos.»
«Nessun problema», aveva ribattuto Ellen, cui ancora bruciava un po’ lo scambio di battute con lui durante la riunione decisiva della commissione.
«Dopo il discorso della signora Marquand, io… ho pensato che fosse importante riesaminare la nostra conversazione con il dottor Steinman», aveva detto Poulos. «Ho ritenuto che, considerando la promessa alla nazione della first lady, lui dovesse sapere che la votazione non sarà unanime.»
«Suppongo che, nella sua posizione, avrei fatto la stessa cosa», aveva ammesso lei, piuttosto freddamente.
«Signora Kroft», s’era intromesso Steinman, «confesso di essere stato colto di sorpresa nell’apprendere che, almeno prima del discorso della signora Marquand, lei aveva intenzione di votare contro l’applicazione dell’Omnivax. In questi anni di riunioni, ho avuto l’impressione che lei onorasse il suo mandato di rappresentante dei consumatori in modo ammirevole, facendo domande su ogni problema fino a che non lo capiva e arrivando sempre preparata alle nostre sedute. Mi ero chiesto di tanto in tanto se avrebbe votato contro il benestare, pur avendo lei solo un voto su ventitré. Ma ora che il suo voto potrebbe realmente bloccare l’intero programma Omnivax, ho pensato che, se è d’accordo, avremmo potuto riesaminare insieme quello che è in gioco.»
Tra tutti i membri della commissione, Steinman era quello che Ellen rispettava di più. Aveva diretto ogni seduta con imparzialità ed era sempre stato paziente e incoraggiante quando lei aveva iniziato una delle sue domande con le solite parole: «Scusate, ma non essendo un medico, mi stavo chiedendo se…»
«Sono disponibile e aperta a qualsiasi punto di vista», aveva replicato. «Malgrado ciò che le avrà forse detto il dottor Poulos.»